Corte Costituzionale sull’articolo 3 della legge DAT

Pubblichiamo un approfondimento sull’art3 della legge delle DAT del dottor Marco Schiavi

Commento a sentenza Corte Costituzionale sull’articolo 3 della legge DAT

La legge 22 dicembre 2017 n. 219 (legge DAT) approda per la prima volta all’esame della Corte costituzionale a seguito dell’ordinanza del Giudice Tutelare (GT) del Tribunale di Pavia che appunta le sue critiche di costituzionalità sull’articolo 3 della legge che riguarda minori ed incapaci.

In particolare l’articolo 3 prevede:
– per quanto riguarda i minori, che hanno diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e decisione nell’ambito del consenso informato ai trattamenti sanitari e che devono ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute, in modo consono alle loro capacità, per essere messi nelle condizioni di esprimere la propria volontà.
Tale volontà, della quale occorre tenere conto, in relazione all’età ed al grado di maturità del minore, non è vincolante o decisiva, in quanto il consenso al trattamento sanitario è espresso o rifiutato dai genitori (“gli esercenti la responsabilità genitoriale”) o dal tutore in loro mancanza, “avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”;
– per quanto riguarda la persona interdetta, ovvero chi si trova in una situazione di abituale infermità di mente, il consenso è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l’interdetto ove possibile, stante la citata abituale infermità di mente e, anche in questa ipotesi, l’articolo 3 ripete che le scelte del tutore hanno “come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel pieno rispetto della sua dignità”;
– per quanto concerne l’inabilitato, forma meno grave di incapacità, le decisioni competono allo stesso inabilitato;
– per quanto riguarda le persone soggette ad amministrazione di sostegno, la situazione è più complessa, stante la distinzione tra “assistenza necessaria”, nella quale la volontà dell’amministratore di sostegno (ADS) si fonde con quella del beneficiario e “rappresentanza esclusiva”, nella quale la volontà rilevante è unicamente quella dell’ADS, il quale agisce “tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere”.
L’unico conflitto preso espressamente in considerazione dall’articolo 3 al quinto comma è quello in cui il rappresentante legale della persona incapace rifiuti le cure ed il medico, al contrario, le ritenga appropriate e necessarie, nel qual caso la decisione spetta al GT.

Nella fattispecie concreta al GT presso il Tribunale di Pavia è stato richiesto di attribuire all’ADS una rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, comprendente anche il potere di esprimere il consenso ai trattamenti sanitari, non residuando alcuna capacità in capo all’amministrato ed il GT ha condotto nel modo seguente l’esegesi della norma e del più ampio contesto legislativo che la comprende:
– i trattamenti sanitari rispetto ai quali l’ADS è chiamato ad esprimersi sono comprensivi anche di quelli “necessari alla sopravvivenza”, perché esiste nella legge DAT un perfetto parallelismo tra l’ambito del consenso informato espresso dal soggetto capace e quello del consenso informato che il rappresentante dell’incapace è chiamato a rilasciare o negare;
– trattandosi di incapace che non ha redatto le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), ciò significa l’attribuzione all’ADS di un potere illimitato, di vita o di morte e, soprattutto, non soggetto ad alcun sindacato giudiziario, essendo l’intervento del GT previsto unicamente in caso di
contrasto con il medico.
Pertanto il GT ritiene:
– che, qualora la scelta dell’ADS sia nel senso di rifiuto o mancata attivazione di cure o di trattamenti necessari alla sopravvivenza, debba sempre essere oggetto di verifica da parte dell’autorità giudiziaria e del GT in particolare;
– che il GT dovrà “ricostruire” la volontà dell’incapace per verificare se, prima dell’incapacità, abbia manifestato l’intenzione di non essere sottoposto a determinati trattamenti sanitari, anche necessari alla sopravvivenza;
– se all’esito di tale “ricostruzione”, attraverso scritti, testimonianze, convinzioni di tipo religioso o filosofico, scelte di vita, il GT accerterà che una tale volontà è stata manifestata, il GT autorizzerà l’interruzione dei trattamenti anche necessari alla sopravvivenza; nel caso in cui tale volontà non sia mai stata manifestata, perché, ad esempio, l’incapace è gravemente tale sin dalla nascita o non vi sia certezza su tale volontà, il GT non potrà ordinare la cessazione o il non inizio dei trattamenti necessari alla sopravvivenza e, invece, dovrà dare assoluta prevalenza al bene della vita.

La ricostruzione del quadro normativo operata dal GT non è pienamente condivisibile, pur avendo il merito di avere evidenziato incongruenze e lacune della legge 217/2019.
In primo luogo, ritenere che il consenso espresso personalmente dal soggetto capace e maggiorenne, disciplinato dall’articolo 1 della legge DAT, abbia la stessa estensione del consenso espresso dal rappresentante dell’incapace non appare operazione ermeneuticamente corretta, se solo si considera che per ben due volte nell’articolo 3 compare l’espressione secondo la quale lo scopo alla cui realizzazione è funzionale la volontà manifestata dal rappresentante dell’incapace in materia di trattamenti sanitari è costituito dalla “tutela della salute psicofisica e della vita”, parametro assente nell’articolo 1, della legge DAT, tutto incentrato sull’autodeterminazione del
paziente ed ignorato dallo stesso GT, pur essendo
ripetutamente presente nell’articolo 3, oggetto di estesa analisi da parte del GT.
Un tale parametro è assente nell’articolo 1 della legge, la quale recepisce un principio ormai, purtroppo, acquisito, ovvero che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra alcun limite allorché da esso consegua il sacrificio anche del bene della vita.
Si ritiene, infatti, che il paziente non abbia il dovere di curarsi e mantenga il diritto di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, anche quella terminale.
L’attività del rappresentante dell’incapace è, invece, funzionalizzata alla tutela della vita e della salute psicofisica dell’incapace e la cessazione di trattamenti vitali costituirebbe una violazione di tale principio, non solo affermato ma, addirittura, pedissequamente ripetuto dal legislatore nell’articolo 3, potendo trovare, forse, una tale cessazione la propria giustificazione solo nella situazione di accanimento terapeutico.
La volontà dell‘incapace, al quale la legge non attribuisce efficacia vincolante, non può andare in senso contrario alla tutela della vita e della salute psicofisica, perché come in ambito patrimoniale l’utilità dell’atto è alla base dell’autorizzazione del GT (per esempio, acquisto o vendita di un bene immobile, accettazione o rifiuto di eredità), non avendo rilevanza la volontà, comunque manifestata, dell’incapace, così in un ambito ancora più delicato ed essenziale, quale quello che coinvolge il bene supremo della vita, l’ordinamento ha deciso che chi non può manifestare con piena capacità il proprio consenso deve essere tutelato nella vita e nella salute.

Il GT sostiene, riprendendo quanto affermato dalla
Cassazione a partire dalla sentenza Englaro, che si può e si deve verificare se una volontà sia stata anticipatamente manifestata dall’incapace, ovviamente prima di cadere in stato di incapacità, perché in tal caso questa volontà sarebbe vincolante, diversamente da quella manifestata già
sussistendo lo stato d’incapacità.
Non è questa la sede per approfondire le obiezioni alle quali è andato incontro tale meccanismo, criticato per condurre ad incertezza, arbitrarietà, valorizzazioni di elementi privi di
effettivo rilievo e lontani nel tempo, nonché carenti di alcun legame con l’attuale situazione sanitaria e personale nella quale l’incapace si trova.
In questa sede è sufficiente considerare che:
– la volontà anche precedentemente manifestata dall’incapace non può ledere il bene della vita e della salute psicofisica, ma solo orientare le scelte terapeutiche che saranno operate dal rappresentante dell’incapace;
– l’ordinamento ha apprestato lo strumento delle DAT e, a prescindere da ogni considerazione giustamente critica, se si ammettesse una tecnica ricostruttiva della vlontà ad di fuori delle (poche) garanzie formali e sostanziali offerte dalle DAT, queste ultime verrebbero ad essere private di ogni rilevanza.
Si giungerebbe ad ammettere che l’articolo 4 della legge che disciplina le DAT è sostanzialmente inutile, potendosi pervenire ad una “ricostruzione” della volontà manifestata prima dell’insorgere dell’incapacità con qualunque modalità, al cui accertamento sarebbe deputata l’autorità giudiziaria.
Il procedimento di ricostruzione della volontà si è imposto in un tempo in cui le DAT non erano normativamente previste, oggi, diversamente, l’articolo 4 della legge 219/2017 ha previsto una unica modalità, tendenzialmente vincolante (sic) per i medici, per manifestare le proprie volontà sui trattamenti sanitari e terapeutici in caso di sopravvenuta incapacità.
A dimostrazione dell’inammissibilità di siffatta“ricostruzione” della volontà, al fine di farne emergere una volontà vincolante per i medici, basta considerare l’articolo 6 della legge DAT che prende in considerazione quanto manifestato precedentemente all’entrata in vigore della stessa legge e riconosce valore vincolante solo ai “documenti…depositati presso il comune di residenza o presso un notaio”, manifestazioni formali della volontà del disponente ed implicitamente escludenti ogni attività di “ricostruzione” della volontà.
Quindi il GT, a nostro modesto avviso, erra nel non valorizzare la “funzionalizzazione” della volontà del rappresentante dell’incapace ed a riproporre il meccanismo della “ricostruzione” della volontà dell’incapace precedente lo stato di incapacità e relativa ai trattamenti sanitari.
E‘ vero che il rifiuto delle cure è espressione di “valutazioni personalissime”, ma sono valutazioni che, allo stato attuale della normativa, trovano nello strumento delle DAT la loro sede appropriata per manifestarsi.
L’interpretazione proposta dal GT conduce ad intravedere il pericolo che il rappresentante dell’incapace e il medico, senza alcun controllo da parte di un soggetto terzo ed imparziale quale l’autorità giudiziaria, possano decidere la sospensione o la non attivazione di trattamenti vitali, in sostanza, la morte dell’incapace.
Da questo punto di vista l’ordinanza del GT esprime con sensibilità la preoccupazione che vengano adottati criteri di stampo oggettivo (c’è un accenno al “best interest” del paziente – criterio di matrice anglosassone che si traduce nel negare rilevanza proprio alla volontà del paziente) per decidere in merito ai trattamenti vitali e ritiene che, senza un aggancio solido e provato alla volontà dell’incapace, verificata attraverso il controllo e l’attività di indagine posti in essere dallo stesso GT, la questione, in fondo, della vita o della morte dell’incapace non possa essere il frutto di una sorta di “trattativa privata” tra il rappresentante dell’incapace ed il medico.
Quindi, in conclusione, per il GT presso il Tribunale di Pavia:
– laddove non esistono DAT occorre ricostruire, con l’intervento dell’autorità giudiziaria, la volontà dell’incapace, manifestata prima dell’insorgere dello stato di incapacità;
– solo se tale ricostruzione conduce con certezza alla conclusione che l’incapace era contrario a determinati trattamenti sanitari in specifiche circostanze, il GT potrà autorizzarne l’interruzione o la non attivazione;
– in mancanza di tale certezza la prevalenza è per la tutela del bene della vita, recuperando in maniera tardiva e subordinata il criterio della “funzionalizzazione” che, al contrario, è centrale e prioritario nella struttura dell’articolo 3 della legge DAT.

La sentenza della Corte costituzionale, lo si anticipa, non affronta in maniera frontale i temi oggetto dell’ordinanza di rimessione e, in un certo senso, nasconde tra le righe alcuni spunti che avrebbero meritato una più intensa analisi.
La fattispecie concreta, è bene rammentarlo, si incentra sulla presenza di un soggetto, non in grado di manifestare alcuna volontà valida e vincolante in ambito sanitario (ovvero l’ambito dell’articolo 1 della legge DAT); che non ha redatto in precedenza alcuna DAT; per il quale non è possibile operare alcuna “ricostruzione” della volontà in materia di trattamenti sanitari manifestata anteriormente all’insorgere dell’incapacità.
Non si tratta di una situazione rara, se solo si ipotizza un infante (il pensiero corre ai casi di Charlie e Alfie) o un soggetto nato gravemente disabile, rappresentando, anzi, la situazione che ha maggiormente preoccupato i critici della legge 219/2017, considerato che proprio l’articolo 3 della legge DAT contempla l’ambito nel quale l’attacco ai deboli, ai vulnerabili, a coloro con una “bassa qualità della vita”, sarà portato con maggiore intensità.
La Corte costituzionale afferma che, anche se all’ADS sia stata affidata la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ovvero di decidere senza il concorso della volontà dell‘incapace, ciò non significa che, per ciò solo, abbia il potere di “rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del beneficiario, senza che il giudice tutelare possa diversamente decidere e senza bisogno di un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure”.
Al GT era, invero, parso diversamente, sulla base della lettera dell’articolo 3 della legge, che ancorava alla rappresentanza esclusiva il potere dello stesso rappresentante di esprimere il consenso anche a trattamenti salvavita.
La Corte costituzionale ritiene, quindi, che spetti allo stesso GT, pur quando attribuisce in via esclusiva la rappresentanza in ambito sanitario, riservarsi il potere di autorizzare l’interruzione o la non attivazione di trattamenti
salvavita.
Tale affermazione della Corte pone un primo quesito: deve il GT riservarsi espressamente il potere di autorizzare la non attivazione o la cessazione di trattamenti salvavita o, nel silenzio del decreto di nomina dell’ADS ed in caso di rappresentanza esclusiva, compete all’ADS il potere di decidere sui trattamenti salvavita?
Sul punto la Corte è risoluta nel negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario comporti il potere dell’ADS di decidere sui trattamenti salvavita: il conferimento della rappresentanza esclusiva non reca con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita.
Aggiunge la Corte che le norme della legge DAT si limitano a disciplinare l’ipotesi in cui l’ADS abbia ricevuto tale potere che, comunque, spetta al GT attribuire specificamente in occasione della nomina.
Tale potere può essere attribuito in sede di nomina o anche successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.
La Corte dedica un cenno per ribadire che tale decisione incide su “diritti soggettivi personalissimi” e ne fa derivare, in via immediata, la conseguenza che la decisione del GT di conferire tale potere debba essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute del disabile in quel dato momento considerato.
Una prima chiave di lettura, dunque, condurrebbe alla conclusione che il GT può attribuire all’ADS anche il potere di non iniziare o interrompere trattamenti vitali, ma la lettura della sentenza porta ad esiti meno scontati.
Innanzitutto la Corte puntualizza che, se il GT ha il potere di modellare i poteri dell’ADS anche in ambito sanitario, questo stabilirne di volta in volta l’estensione è “nel solo interesse del disabile”, confermando una linea di pensiero che parte proprio con Cassazione Englaro e volta ad escludere il riferimento a parametri ancorati alla “qualità della vita”, ad una concezione sociale della “vita degna di essere vissuta”, magari, abilmente celati dietro il concetto del “best interest”.
Quale sia il “solo interesse del disabile” è dalla Corte anche specificato laddove, se attribuisce al GT il compito di individuare e circoscrivere i poteri dell’ADS, precisa che ciò deve essere svolto “nell’ottica di apprestare misure volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà”.
Quindi:
– l’interesse del disabile in ambito sanitario è che siano garantiti ed apprestati i mezzi per la miglior tutela della sua salute;
– la volontà del disabile stesso non può contrastare con la “funzionalizzazione” dell’attività dell’ADS, rappresentata dalla tutela della salute;
– la tutela della salute del disabile costituisce unico scopo dell’attività dell’ADS ed al cui perseguimento è indirizzata la stessa attività del GT che, diversamente, rimarrebbe priva di parametri oggettivi, ancorata a fluttuanti considerazioni di stampo “sociale” o meramente soggettivi.
Al contrario, la “migliore tutela della salute” indirizza e guida sia l’attività del GT che quella dell’ADS e nel perseguire questa finalità la volontà dell’amministrato è da tenere “pur sempre in conto”, senza consentirne un carattere vincolante o una finalità contraria al perseguimento della salute ma, per esempio, riconoscendone l’incidenza sulle diverse alternative terapeutiche e sulle condizioni circostanti (luogo di cura e medici, per esempio).
E’ il momento della domanda sin o ad ora trattenuta: quando il GT può autorizzare, direttamente o conferendo tale potere all’ADS, la non attivazione o la cessazione dei trattamenti vitali?
La risposta è ipotizzabile nel collegamento tra l’articolo 3 ed il precedente articolo 2 della legge, relativo al divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, in termini più noti, accanimento terapeutico. In altri termini, se la “migliore tutela della salute” del beneficiario dell‘amministrazione di sostegno non può o non può più essere perseguita in quanto i trattamenti astrattamente prospettabili sono “inutili o sproporzionati”, il GT può autorizzare la cessazione dei trattamenti che, seppure necessari per la sopravvivenza, nella situazione concreta, sono privi di alcuna utilità terapeutica, in quanto, ad esempio, l’organismo non è capace di assimilazione (nutrizione ed idratazione) oppure appaiono sproporzionati nelle conseguenze, per esempio dolorose, rispetto ai vantaggi che ne potrebbero derivare.
Senza in questa sede addentrarci in questioni relative all’aspetto soggettivo insito in ogni valutazione di “sproporzione”, magari proprio alla luce delle DAT o della volontà espressa dall’incapace, l’articolo 2 può fungere da limite alla continuazione od all’inizio del trattamento necessario alla sopravvivenza.
Nella sentenza la Corte costituzionale esprime la convinzione secondo la quale l’articolo 3 della legge reca la disciplina “concernente tanto il consenso informato quanto le DAT” ed applicabile nel caso in cui il paziente sia non una persona pienamente capace di agire.
Non si può che convenire con tale affermazione se, con riferimento al consenso informato, si limita a ribadire che il rappresentante dell’incapace presta il consenso in luogo dell’incapace, ma se fosse volta a configurare una sorta di parallelismo, anche normativo, tra il consenso della persona capace e quello del rappresentante dell’incapace, potrebbe essere tacciata di una lettura superficiale, solo a considerare, lo si ripete, la “funzionalizzazione” che caratterizza l’articolo 3 e che, al contrario, è totalmente assente nell’articolo 1.
Per quanto riguarda il rapporto tra le DAT e l’articolo 3, tendenzialmente è un rapporto di esclusione: se l’incapace in epoca precedente il sorgere dello stato di incapacità ha redatto le DAT, si tratterà di interpretare ed applicare le DAT, con tutti i problemi in materia di conflitti, tra i quali è sufficiente ipotizzare anche solo quelli tra il fiduciario nominato in precedenza con le DAT ed il rappresentante (tutore o ADS), nominato dal Giudice in epoca successiva, qualora non si tratti della stessa persona. Al riguardo si può prospettare che il ruolo del rappresentante riguarderebbe o aspetti non disciplinati dalle DAT, per cui riprenderebbe vigore la disciplina dell’articolo 3 o questioni interpretative afferenti le DAT in conflitto con il fiduciario.

Il tema dell’esclusività dello strumento delle DAT al fine di esprimere le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari in previsione della propria futura incapacità si pone, peraltro, non solo con riferimento alla “ricostruzione” della volontà operata in via giudiziaria attraverso, praticamente, qualsiasi mezzo di prova (scritti, testimonianze, stili di vita), ma anche rispetto allo strumento di cui all’articolo 408 del codice civile.
Con tale norma la legge consente di designare il proprio amministratore di sostegno, designazione alla quale dovrà far seguito la nomina da parte del Giudice, il quale potrà discostarsi da tale designazione solo in presenza di “gravi motivi”.
L’atto di designazione deve rivestire la forma notarile ed il notaio svolge la sua attività di accertamento dell’identità del dichiarante, indagine sulla volontà, controllo di legittimità su quanto dichiarato e corrispondenza alla fattispecie normativa.
E’ stato oggetto di dibattito il contenuto dell’atto di designazione dell’ADS se, cioè, debba essere limitato alla mera designazione dell’ADS o se possa contenere altre statuizioni, vincolanti o semplici raccomandazioni, anche riguardo ai trattamenti sanitari.
La giurisprudenza, anche recentemente in una fattispecie nella quale, “ratione temporis”, non trovava applicazione la legge 219/2017, ha ritenuto possibile, nel contesto dell’atto di designazione, “impartire delle direttive…sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere all’amministrazione di sostegno” (così Cassazione 12998/2019).
L’atto di designazione dell’ADS di cui all’articolo 408 del codice civile è distinto dalle DAT di cui all’articolo 4 della legge 219/2017, considerando, a tacer d’altro:
– il requisito previsto per le DAT, ovvero che la loro redazione debba avvenire “dopo avere acquisito adeguate informazioni”, requisito che non compare nell’articolo 408 del codice civile;
– la possibilità di revocare le DAT, in casi di emergenza e urgenza, “con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico con l’assistenza di due testimoni”, modalità non prevista per l’atto di designazione dell’ADS per il quale il principio di simmetria delle forme richiede per la revoca la forma notarile.

Le svolte considerazioni portano a ritenere che, se precedentemente all’introduzione delle DAT, la
giurisprudenza ha configurato l’atto di designazione dell’ADS come lo strumento in grado di veicolare al suo interno le direttive/disposizioni relative ai trattamenti sanitari, nel quadro normativo attuale l’esclusività della DAT deve essere affermata, senza che vi sia spazio non solo per l’attività di “ricostruzione “ della volontà, ma anche per altri
atti, anche notarili, come “luogo” della manifestazione di volontà in materia di trattamenti sanitari “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi”.
Anche questo argomento interseca il tema dei conflitti, del tutto assente nella sentenza in commento e, tranne il richiamo al quinto comma dell’articolo 3, anche nella legge, tema destinato, come già dimostrano le cronache, ad assumere sempre maggiore rilevanza in futuro.
Non si può, infatti, escludere, come già accennato, che alla nomina di un fiduciario nell’ambito delle DAT, faccia poi seguito la designazione e la nomina di un diverso ADS. Senza pretendere di offrire indicazioni definitive, ma solo in prima approssimazione, si può ritenere che in materia di trattamenti sanitari il ruolo preminente spetti al fiduciario nominato con le DAT.
Problemi di non poco conto, infatti, potrebbero sorgere nel caso in cui le DAT non siano state revocate, almeno nella parte relativa alla nomina del fiduciario ed il rapporto tra dichiarante e fiduciario sia venuto meno o, addirittura, abbia assunto aspetti di conflittualità, al punto da risultare nominata quale ADS altra persona.
La situazione porterebbe all’emersione di varie questioni:
– quale è la sorte delle DAT ed in particolare del la nomina del fiduciario non formalmente revocata, non apparendo consentita, dal formalismo che caratterizza le DAT, una revoca tacita o “per facta concludentia”?
– quale è la disciplina dei conflitti tra l’ADS ed il fiduciario?
Certamente le problematiche diventerebbero ancora più consistenti se si ammettesse che due atti, così diversi, quali la designazione dell’ADS e le DAT possano entrambi avere un contenuto in materia di trattamenti sanitari.
Quindi è da ritenere normativamente superata l’opinione giurisprudenziale che l’atto di designazione dell’ADS possa “esprimere le intenzioni in modo vincolato anche per quel che concerne il consenso alle cure sanitarie” (così ancora Cassazione 12998/2019).

Invero, in termini generali:
– se la persona è capace, l’articolo 1 della legge DAT disciplina oggetto e requisiti del consenso ai trattamenti sanitari;
– se la persona, divenuta incapace, ha redatto in precedenza le DAT, queste saranno la fonte della disciplina, dovendosi riconoscere, senza enfasi e con attenzione, che il legislatore “tende” a trattare le DAT come una sorta di “consenso anticipato”;
– se persona è incapace e non ha redatto le DAT, la fonte primaria è l’articolo 3 della legge, che presenta una indubbia specificità che induce alla massima cautela nello svolgimento di ogni operazione interpretativa volta ad applicare alla persona incapace quanto previsto per quella capace.

In conclusione e tornando alla sentenza in commento, la Corte lascia al GT il compito di conformare nel caso concreto i poteri dell’ADS e ribadisce:
– che l’amministrazione di sostegno è istituto duttile, che ben si adatta alle circostanze dei casi concreti;
– che il GT individua gli atti in relazione ai quali ritiene necessario l’ADS, dovendo strettamente limitarsi alle sole categorie di atti per il compimento dei quali il beneficiario dell’amministrazione di sostegno sia considerato inidoneo;
– che lo stesso beneficiario può essere privato della capacità di porre in essere atti personalissimi (matrimonio, donazione ed anche, ovviamente, il consenso ai trattamenti sanitari), soltanto quando non sia ritenuto idoneo, dal punto di vista della capacità di intendere e di volere, al compimento di tali specifici atti;
– se, proprio in virtù di tale inidoneità, il GT attribuisce all’ADS la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ovvero di accertamenti diagnostici e trattamenti sanitari, il criterio della “tutela migliore della salute” del beneficiario, si pone quale criterio ordinatore sia dell’attività del GT che di quella dell’ADS e alla corretta applicazione di tale criterio sarà devoluta la risoluzione dei conflitti.

Soltanto una forte centralità del criterio della “tutela migliore della salute” dell’incapace potrà impedire derive eutanasiche ed una brutale e omicida applicazione dell’articolo 3 della legge DAT a situazioni nelle quali una solo presunta “volontà dell’incapace” costituirà l’apparente fondamento per scelte ispirate a concezioni di “qualità della vita” e di “vita non degna di essere vissuta” profondamente disumane e contrarie alla vera dignità della persona.

Permalink link a questo articolo: http://www.movimentovitamilano.it/commento-a-sentenza-corte-costituzionale-sullarticolo-3-della-legge-dat/