La Dignità della persona nella legge Merlin

La sentenza del 7 giugno 2019 n. 141 della Corte costituzionale ha come tema la legge 20 febbraio 1958 n. 75, la cosiddetta legge Merlin, certamente una delle leggi più note, anche a livello popolare, con la quale sono state abolite e chiuse centinaia di case di tolleranza ed il cui titolo recita “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”, dove è interessante notare, da un lato, che lo scopo non è l’abolizione della prostituzione “tout court” ma della sola “regolamentazione” e, dall’altro, che la “lotta” è contro lo sfruttamento della prostituzione “altrui”, non “propria”, a fini anche di guadagno economico.
Si tratta di una legge che ha segnato una tappa fondamentale nella società italiana, legge sottoposta più volte al vaglio della Corte costituzionale che ha sempre rigettato ogni tentativo volto alla declaratoria di incostituzionalità.
E così ha fatto pure questa volta.

Lina Merlin, che ha legato il suo nome alla legge, come ha ricordato Francesco Agnoli in occasione del quarantennale della morte, avvenuta il 16 agosto 1979, era di formazione cattolica e militanza politica socialista, esempio di femminismo contrario alla prostituzione, al divorzio ed all’aborto.
In un discorso all’Assemblea costituente nel 1947 Lina Merlin affermava che “la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato”, a dimostrazione di una sintonia con il mondo cattolico che la condurrà all’assunzione della carica di vice presidente del Comitato per abrogazione della legge istitutiva del divorzio, Comitato guidato da Gabrio Lombardi.
Negli anni recenti la legge Merlin è stata attaccata in nome del principio di autodeterminazione sessuale.
Da John Stuart Mill (principalmente nel saggio “On liberty”) in poi, si è sempre più affermato prepotentemente il principio secondo il quale lo Stato non può prendere in considerazione e punire condotte che esauriscono la loro rilevanza nell’ambito individuale (“Su se stesso, sul suo corpo e la sua mente, l’individuo è sovrano”) e che non recano danno ad altri (“L’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi”), ovvero scelte che riguardano unicamente il singolo individuo e non hanno una rilevanza pubblica, includendosi in tali condotte la visione di materiale pornografico
o i rapporti sessuali, di qualunque genere, tra soggetti consenzienti e maggiorenni.
Questo argomentare conduce ad affermare che, se è presente un accordo libero, volontario, consapevole, non coartato e non determinato dal bisogno, la prostituzione deve essere considerata un’attività pienamente lecita ed anche suscettibile di essere organizzata in forma d’impresa.

In questa impostazione, che spesso sentiamo ripetere, è già presente sia una mistificazione che un errore giuridico.
In primo luogo la prostituzione, lungi dall’essere un fatto privato, consumato nel chiuso di una stanza, ha enormi conseguenze sia personali, la prostituta ed il cliente, che sociali, solo considerando la salute pubblica, la vita familiare e l’immagine della donna che è veicola nella rappresentazione collettiva, conseguenze ben paragonabili a quelle di un’altra “macchia nera e silenziosa” quale è la pornografia, entrambe circondate dal mito di essere manifestazione della libertà individuale, priva di conseguenze e responsabilità sociali (“doveri di solidarietà”, per usare l’espressione dell’articolo 2 della Costituzione) ed il cui esercizio è assolutamente innocuo, sia per chi lo realizza che per l’ambiente sociale circostante.
In secondo luogo la prostituzione oggi è un’attività libera, certamente non agevolata dallo Stato, ma il cui esercizio non è oggetto di sanzione alcuna.
Depenalizzata nel 1999 anche la contravvenzione di adescamento o invito al libertinaggio, la prostituta può svolgere la sua attività senza timore alcuno, anche se l’ordinamento non manifesta certamente apprezzamento per l’attività di meretricio, come si evince agevolmente se solo si considera che, dal punto di vista del diritto civile, l’accordo tra la prostituta e il cliente è nullo per illiceità della causa, in quanto contrario al buon costume, il che comporta che la prostituta non può agire in giudizio per chiedere il pagamento della prestazione sessuale e il cliente non può chiedere la restituzione di quanto pagato per la stessa prestazione sessuale.
Il dibattito attuale non si incentra sulla prostituzione coartata con violenza o minaccia o necessitata dal bisogno elementare (cibo, alloggio, vestiario, medicine), ma presenta due profili qualificanti:
– interessa la prostituzione scelta liberamente, volontariamente e consapevolmente;
– riguarda i soggetti terzi che intendono inserirsi nell’attività della prostituta, in particolare attraverso il reclutamento e il favoreggiamento.

La vicenda processuale penale che ha dato origine alla sentenza della Corte costituzionale ha quali imputati, davanti prima il Tribunale e poi la Corte di appello di Bari, alcuni personaggi accusati di avere reclutato e favorito la prostituzione di alcune donne a vantaggio dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Costoro, condannati in primo grado, in appello hanno sollevato nuovamente l’eccezione di illegittimità costituzionale delle norme della legge Merlin, poste a fondamento della condanna stessa, sostenendo l’incostituzionalità delle norme che puniscono l’attività di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione svolta nei confronti di donne libere, consenzienti e, forse, anche desiderose di prestare i propri servizi sessuali allo scopo di ricevernevantaggi di vario tipo, sia immediatamente economici che attinenti le possibilità di inserimento in lucrosi ambiti lavorativi.
Le domande e le osservazioni che su questo argomento sentiamo risuonare intorno a noi, anche da parte di uomini politici che chiedono la “legalizzazione” della prostituzione, ovvero l’organizzazione di “bordelli” in forma imprenditoriale e promettono di attivarsi a tal fine, coinvolgono aspetti relativi al diritto, alla morale ed alla considerazione dei riflessi personali e sociali delle scelte politiche e giuridiche.
Se le donne hanno voluto prostituirsi perché devono essere condannati coloro che le hanno aiutate a realizzare questa scelta? Queste attività non dovrebbero essere regolamentate alla “luce del sole”? Perché la legge, al contrario, punisce una siffatta attività compiuta nel rispetto della volontà delle donne che si sono prostituite, donne che non appartengono a nessuna categoria vulnerabile, ma che, al contrario, sono bene in grado di operare le proprie “scelte di vita” e che, proprio da tali “scelte” hanno tratto un considerevole vantaggio sia sul piano economico che su quello dello sviluppo delle loro carriere in diversi ambiti?
La Corte di appello di Bari accoglie, con entusiastica convinzione, l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata e la ritiene, secondo i due parametri richiesti dalla legge, “rilevante” nel giudizio, in quanto dal suo accoglimento da parte della Corte costituzionale dipende l’assoluzione degli imputati e non “manifestamente infondata”, come aveva, al contrario, ritenuto il Tribunale in primo grado.
L’ordinanza con la quale la Corte di appello di Bari ha sollevato la questione di legittimità avanti la Corte costituzionale è un riassunto, giuridicamente impostato, dei tanti discorsi che dai bar salgono, attraverso la cosiddetta opinione pubblica, fino a raggiungere le aule del Parlamento per richiedere lo “sdoganamento” pieno della prostituzione, o meglio, di coloro che intenderebbero inserirsi all’interno di questa profittevole attività “senza lacci e laccioli”, in un contesto definitivamente ripulito da ogni valutazione morale e da ogni regolamentazione giuridica, un vero “free market”!
Il perno principale di tutto l’argomentare giuridico è l’articolo 2 della Costituzione, il quale riconosce e tutela i diritti inviolabili della persona umana ed al cui interno è collocata la libertà di autodeterminazione sessuale, non più considerata, secondo la Corte di Appello di Bari, unicamente come diritto a non subire intrusioni nella propria sfera sessuale, ma positivamente arricchita e considerata quale “diritto di disporre della propria sessualità”.
Strettamente consequenziale è l’argomento secondo il quale la legge Merlin non è a tutela di un vetusto concetto di salute o di moralità pubblica ma, proprio aderendo ad una interpretazione conforme al dettato costituzionale, il bene giuridico tutelato sarebbe costituito dalla libertà di autodeterminazione sessuale e, pertanto, tutte le norme che sanzionano comportamenti di soggetti che si intromettono nell’attività di meretricio, liberamente e consapevolmente scelta, non offendono alcun bene giuridicamente rilevante, ovvero, non solo non offendono ma, anzi, aiutano e sostengono la piena esplicazione della libertà di autodeterminazione sessuale.
La Corte di appello barese richiama anche l’articolo 41 della carta costituzionale che tutela la libera iniziativa economica, alla quale è pienamente assimilabile l’attività della prostituta, libertà che anch’essa sarebbe lesa dall’impossibilità per la stessa prostituta di essere aiutata o di potere fare affidamento sulla ricerca di clientela ad opera di valenti ed esperti intermediari, favoreggiamento e reclutamento che garantirebbero un proficuo accesso al mercato del lavoro sessuale.
Lo stesso concetto di “favoreggiamento” è oggetto, infine, di una censura di illegittimità costituzionale, nonostante la sua presenza in numerose norme del diritto penale ed una copiosa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, in quanto troppo generico, inidoneo ad individuare le condotte vietate e, quindi, costituente una violazione del principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.
In conclusione non poteva mancare, in questi tempi di crisi economiche permanenti, un accenno alle finanze dello Stato, sottolineando che la legalizzazione o, almeno, la depenalizzazione delle condotte di reclutamento e favoreggiamento renderebbe maggiormente effettivo l’avvenuto riconoscimento dell’obbligo di pagamento delle tasse anche relativamente ai proventi dell’attività di meretricio (pensa la Corte di Appello alla fattura elettronica recapitata nel cassetto fiscale del cliente?), con un rilevante beneficio per le finanze pubbliche determinato da una “trasparente” organizzazione imprenditoriale dell’attività delle prostitute.
La difesa degli imputati ha anche sollevato un interessante parallelismo tra le tematiche relative alla legge Merlin e quelle del fine vita
e delle unioni civili.
Riguardo alle prime ha sottolineato che il principio di autodeterminazione è stato riconosciuto anche con riferimento al bene supremo della vita (e, quindi, perché negarlo con riferimento ad un bene di grado inferiore quale l’autodeterminazione sessuale?) e per le seconde ha rimarcato il progressivo riconoscimento della libertà di scelta con riferimento all’identità sessuale ed all’omosessualità (e, quindi, perché negarla con riferimento al mercimonio della propria sessualità), concludendo che non si comprende perché ad analoghe conclusioni non si debba pervenire anche con riguardo alla prostituzione volontaria.
Per avere un esempio di come, anche involontariamente, si possa propagandare l’idea che esista realmente una prostituzione volontaria, consapevole e che non danneggia la persona, è sufficiente ricordare i servizi che la stampa e la televisione dedicano alla prostituzione delle studentesse universitarie, che, magari recandosi nella vicina, pulita e ordinata Svizzera, si prostituiscono al fine di pagare gli studi e permettersi oggetti altrimenti fuori dalle loro possibilità economiche, una sorta di “studente lavoratore” da portare ad esempio, rappresentando in tal modo la prostituzione come un’attività senza alcuna conseguenza negativa, sia di tipo fisico che psicologico, oseremmo dire “spirituale”, un’attività nella quale si entra e dalla quale si esce con grande facilità e senza preoccupazioni particolari, in “bordelli” i cui gestori vanno “a testa alta” dell’attività esercitata e senza una parola di commento, giudizio o valutazione da parte dei giornalisti che, quando si impegnano, riescono proprio a “separare i fatti dalle opinioni”.
Un’attività come tante altre, compiuta per libera scelta, in pieno omaggio al principio di autodeterminazione sessuale.
La Corte di appello di Bari, in tono didattico ma, comunque, benevolo, ha cura di ricordare a coloro come noi, fuori dalla realtà e legati a visioni arcaiche e non moderne (oggi si direbbe “medioevali”), che i tempi sono cambiati, caratterizzandosi i nostri, parrebbe per la prima volta nella storia dell’umanità, per il fenomeno delle “escort”, ovvero ragazze e donne, anche di buone cultura e condizioni familiari e sociali, che si prostituiscono liberamente per cercare di raggiungere i veri scopi ultimi ai quali ambiscono, ovvero carriere brillanti, corsi di studio da completare, possibilità di impiegare in maniera piacevole il tempo libero con vacanze e palestre, beni da acquistare per allietare l’esistenza quotidiana.
Senza dimenticare che dobbiamo collocare tra le nuove “figure” operanti nell’ambito della prostituzione anche i transgender e la prostituzione maschile.
Ma, richiama con forza e convinzione la Corte di appello, le vecchie e le nuove “figure” della prostituzione devono uscire dal ghetto e dall’isolamento nel quale sono ancora condannate a muoversi (probabilmente dalla nostra solita visione “arcaica”, tinta di moralismo), perché, come testualmente recita l’ordinanza dei giudici baresi, non si può precludere alla prostituta “la possibilità di assumere personale per curarne la collocazione sul mercato o per pubblicizzarla” o, addirittura, precludere tale possibilità a chi in questo mercato intende entrare ed al quale sarebbe “interdetta la stessa possibilità di inserirsi nel mercato, non potendo valersi di collaboratori per avviare un esercizio dell’attività professionale”.
Alle argomentazioni della Corte di appello di Bari si uniscono, in un vorticoso crescendo, quelle degli imputati, sicuramente consapevoli della possibilità loro offerta di evitare la condanna già pronunciata in primo grado:
– se il mondo è cambiato lo deve essere anche il linguaggio, perché è evidente che termini come “prostituta” e “prostituzione” evocano scenari “spiacevoli”, invece oggi il termine da preferire è “escort” o “sex worker”, al quale ultimo ha fatto esplicito riferimento la “Dichiarazione dei diritti” firmata a Bruxelles nel 2005 da rappresentanti di organizzazioni provenienti da trenta Paesi; quanto poi il cambio del linguaggio possa avere l’effetto, anziché di aumentare l’attenzione per le donne, di diminuirla è un aspetto che meriterebbe una attenta considerazione. Al riguardo Fiorella Nash, scrittrice anglosassone e recente autrice di “The abolition of woman”, in alcune acute e amare pagine dedicate alla prostituzione immagina il “sollievo” che alla prostituta possa derivare dall’essere qualificata in tale maniera e come la qualifica di “sex worker” sia incapace di mutare il quadro di violenza e degradazione, ma ne rappresenti soltanto una falsa e ipocrita facciata;
– in un maldestro tentativo di apparire quali “difensori” delle donne (non reclutatori o favoreggiatori della prostituzione per finalità di guadagno), si perviene a sostenere che impedire alle prostitute di essere “ingaggiate” in un meccanismo legale non produrrebbe altro che l’effetto “di spingerle a cadere vittime delle reti criminali della prostituzione da strada, realizzandosi così una paradossale eterogenesi dei fini del legislatore”, il che, oltre ad essere una
gratuita offesa al lavoro ed all’impegno di Lina Merlin, ricorda un poco l’argomento secondo il quale per debellare gli aborti clandestini bisognava legalizzarli.
In conclusione, se la prostituta sceglie liberamente di offrire la propria sessualità in cambio di vantaggi (economici o di altro tipo), tutte le condotte che ne agevolano l’attività non sono lesive della libera scelta della prostituta, unico interesse oggetto di tutela della legge penale e, quindi, non devono essere puniti coloro che quelle attività pongono in essere.
Il reato si può configurare solo laddove viene lesa la libera autodeterminazione sessuale della persona, altri interessi da proteggere non sono contemplati e la verifica dell’esistenza in concreto della “libera autodeterminazione sessuale” può essere affidata unicamente all’accertamento di un formale accordo non viziato da errore, violenza, dolo. Pura contrattualistica applicata alla fattispecie concreta.
Manca soltanto un riferimento alla circostanza che la prostituzione è sempre esistita, anzi rappresenta “il più antico mestiere del mondo” è poi il quadro sarebbe veramente completo, mescolandosi argomentazioni giuridiche e discussioni tra amici, conoscenti e interessati clienti della stessa prostituta.

Cosa dire per superare tali apparenti argomentazioni, ma in realtà ovvietà vuote di ogni considerazione che voglia appellarsi all’intelligenza ed all’umanità di ciascuno di noi?
La Corte costituzionale premette una lucida sintesi dei vari approcci sociali e normativi alla realtà della prostituzione e precisa quello fatto proprio della legge Merlin.
Non viene punita né la prostituta, né il cliente, ma è prevista una forte sanzione penale (da due a sei anni di reclusione, oltre alla pena pecuniaria) per tutte le attività collegate alla prostituzione a partire dall’induzione, passando attraverso il reclutamento ed il favoreggiamento e terminando con lo sfruttamento.
I lavori preparatori della legge Merlin danno atto della considerazione della prostituta come persona in condizione di vulnerabilità (termine ricorrente, non a caso, nel dibattito odierno sul fine vita), vulnerabilità legata a cause individuali e sociali: “la distruzione della vita di famiglia, l’insufficienza dell’educazione, i rischi speciali inerenti a certe professioni, il quadro ambientale di moralità degradata”.
La prostituita è potenzialmente una vittima e l’aggressore è la società nel suo complesso, quindi è giusto, morale, doveroso che lo Stato, anche giuridicamente, oltre che economicamente, si astenga dal partecipare a questo mercato del sesso che degrada la persona.
Con convinzione si afferma che le persone cadute nella prostituzione non lo sono quasi mai per loro decisa e libera volontà. E, con fermo realismo, si manifesta la convinzione che la legge non intende sopprimere la prostituzione, pur predisponendo un quadro di interventi che mira a questo obiettivo nel lungo periodo, ma solamente sopprimerne la regolamentazione, quale primo ineludibile passo.
Vi è, fin dall’approvazione della legge Merlin, la consapevolezza che la prostituzione non è una attività “neutra”, priva di ricadute sul piano individuale e sociale.

La stessa Corte costituzionale nella sentenza in esame ricorda le ricadute della prostituzione:
– sui diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili;
– sulla dignità umana, in una versione oggettiva, non ancorata alla mera convinzione, della prostituta o, peggio ancora, del reclutatore, del favoreggiatore o dell’ambiente sociale circostante, in una sorta di dignità “variabile” e, quindi, discriminatoria, a seconda delle condizioni economiche e sociali delle persone considerate;
– sulla salute individuale e collettiva, richiamando il pericolo di trasmissione di malattie sessuali, anche nell’ambito della famiglia, la probabile dipendenza da droga e alcol, traumi fisici e psicologici, depressione e
disturbi mentali, tutte patologie alle quali è esposta la persona che si prostituisce;
– sull‘ordine pubblico, con riferimento alle attività illecite che si associano alla prostituzione, quali tratta delle persone, crimine organizzato e traffico di stupefacenti.
Non è una attività neutra sul piano dei valori umani coinvolti, non è una normale attività economica, non è un lavoro come gli altri, non ha nulla di bohémien, non è una scelta di vita alla quale un padre o una madre possa pensare per le proprie figlie.
L’aspetto interessante della sentenza, potremmo anche definirlo “pregiuridico”, è la convinzione, implicita ma non questo meno evidente, che a fondamento di ogni ordinamento giuridico, quel fondamento che è rappresentato dall’articolo 2 della costituzione con il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona, c’è una immagine di persona, una moralità dell’essere e dell’agire che non può essere obliterata.
Ogni ordinamento giuridico non è un freddo sistema di norme che il giurista analizza come se fossero pezzi di un puzzle da ricomporre. Ogni ordinamento giuridico ha come fondamento la rappresentazione della persona e del suo agire, che ne costituiscono il nucleo centrale.
Il diritto non si confonde con la morale, per la specificità che gli è propria, ma ha come fondamento una visione del mondo, della storia e soprattutto della persona.
In questa sentenza la Corte manifesta tutto questo in maniera chiara, come, purtroppo, ormai accade raramente.

Sul piano strettamente giuridico dei parametri costituzionali evocati dall’ordinanza della Corte di appello di Bari, la Corte nega recisamente che la prostituzione rappresenti un diritto inviolabile della persona riconosciuto come tale dall’articolo 2 della Costituzione.
La Corte opera un collegamento, che funge da criterio interpretativo tra l’articolo 2 e l’articolo 3 secondo comma: il diritto inviolabile è tale nella misura in cui garantisce il pieno sviluppo della persona umana; il diritto inviolabile è collegato al valore della persona e al principio di solidarietà, perché la persona, nello scenario costituzionale, non è solo attributaria di diritti inviolabili, ma è anche destinataria di doveri, anch’essi di rango costituzionale, che scaturiscono dall’inserimento in un vivido contesto di relazioni sociali, a partire da quelli familiari fino a terminare, in una prospettiva internazionale, a quelli nei confronti degli stranieri, passando attraverso quelli con gli altri cittadini.
La concezione della persona trasmessa dalla nostra Costituzione fa perno sulla spettanza di una “libertà di” e non soltanto una “libertà da”, espressione nella quale c’è il senso della libertà che è data, anche a livello giuridico, per la realizzazione della persona e del suo bene, per realizzare il significato al quale ognuno di noi è chiamato, perché non c’è libertà nella distruzione di sé, non c’è alcuna libertà da tutelare nell’abbrutimento dell’essere umano, anche se scelto consapevolmente.
Non si tratta di bramare il ritorno ad uno Stato etico, ma di riconoscere che alcuni valori hanno rilievo costituzionale, altri, pur potendo rientrare nella discrezionalità del legislatore o nelle scelte personali, ne sono privi.

L’ordinamento giuridico, anche riletto alla luce di tale visione costituzionale della persona, non consente, neppure con il consenso dello stesso individuo, attività che siano degradanti per la persona, che ne ostacolano lo sviluppo dell’intimo e ineludibile valore.
Per questo i diritti inviolabili sono inalienabili, non possono essere oggetto di commercio non solo a fronte di un vantaggio economico ma anche per soddisfare intimi desideri, piaceri o, financo, perversioni.
Infatti:
– non si può aiutare alcuno al suicidio, sia pure consapevolmente e liberamente deciso, perché non viene perseguito il bene della persona, non si perviene ad alcuna valorizzazione della persona, bensì alla sua distruzione definitiva ed irreversibile;
– non è consentito che la persona possa dare il proprio consenso alla “riduzione in schiavitù”, magari anche solo temporanea ed a soddisfazione di un malsano desiderio di degradazione ed umiliazione;
– non è consentito, per l’interpretazione che della legge Merlin ne ha dato la costante giurisprudenza, che la stessa prostituta possa dare il consenso al reclutatore, allo sfruttatore ed alle altre persone che, come parassiti e ladri di umanità, la circondano.
La Corte costituzionale affonda il coltello nella pseudo argomentazione di stampo liberistico secondo la quale un formale consenso è capace di superare ogni altra considerazione relativa alla situazione di debolezza di chi quel consenso presta ed all’attività oggetto del consenso stesso, argomentazione fatta propria da chi, anziché guardare in faccia i propri figli e domandarsi se la prostituzione è una attività volta al bene ed allo sviluppo della persona, preferisce pontificare da cattivo maestro, e forse frequentatore di bordelli situati appena oltre il confine.
Questi bordelli ricordano l’immagine di Chesterton che, mentre raffigura la Chiesa come una fortezza aspra e circondata da guardie armate dallo sguardo torvo e bieco, ma al cui interno c’è gioia e divertimento, raffigura i luoghi del male come castelli dalle forme piacevoli e con attraenti individui appostati sulle mure che invitano ad entrare, ma al cui interno è solo tristezza e lugubri ambienti.
Per la Corte costituzionale la prostituzione, sia pure volontaria, non necessitata e non coartata, non partecipa della natura di diritto inviolabile, perché non è uno strumento di tutela e sviluppo della persona umana e, con l’uso del “common sense” sempre di chestertoniana memoria, aggiunge che “ammesso pure che vi siano persone che considerano moralmente gratificante esercitare la prostituzione questo non cambia la sostanza delle cose”.
Non cambia la sostanza delle cose, non cambia la natura delle cose, perché il termine “escort” non cambia la realtà avvilente e degradante del meretricio.
Ed è fortemente significativo che questo richiamo al “diritto fondamentale dell’autodeterminazione sessuale” sia operato, nel giudizio avanti la Corte costituzionale, non dalla prostituta, ma da coloro che dalla sua attività vogliono trarre un guadagno, di qualunque specie esso sia, perché il reclutatore ed il favoreggiatore non sono certo anime pure e caste che in maniera disinteressata si offrono per aiutare la prostituta, magari per un cambio delle “scelte di vita”, ma persone che mirano a trarre dall’attività della prostituta un vantaggio, ad inserire sempre più la prostituta nell’attività di meretricio ed a creare per la stessa rapporti sempre più stretti al fine di poterne trarre un vantaggio costante e proficuo, in una sorta di vivida rappresentazione del personaggio di Fagin, per richiamare l’Oliwer Twist di dickensiana creazione, al quale la ladra e prostituta Nancy imputa la terribile colpa di averle insegnato quel “lavoro” e di averla fatta crescere ormai incatenata a quell’ambiente senza alcuna possibilità di umana redenzione: “e sei tu il miserabile che mi mise sui marciapiedi tanto tempo fa e che continuerà a tenermici, giorno e notte, giorno e notte, finché non creperò!”.
Una colpa terribile, che avvelena l’anima ed alla quale Dickens non concede neppure il pentimento in punto di morte.
Certo i Fagin di oggi hanno cambiato veste, sono personaggi attraenti e inseriti nei circuiti economico e sociali che contano, ma soprattutto aspirano ad una grande vittoria che renderebbe silenziosa Nancy: farle credere che quella della “escort” è una “bella vita”, attraverso l’avvelenamento della mente, il mutamento del linguaggio, l’esaltazione della libertà individuale e la negazione dell’esistenza del bene e della dignità della persona.
Con sano e retto realismo la Corte costituzionale non crede a questa libertà che, quasi gioiosamente, si esprimerebbe nel vendere il proprio corpo, la propria intimità ogni giorno ed ogni notte senza che la devastazione del corpo e dell’anima non si impadronisca a poco a poco ma ineluttabilmente della donna.
Il distacco dalla realtà non sta in coloro che combattono la prostituzione con le parole e con le opere, ma in coloro che vagheggiano, magari per interesse, una prostituzione non solo liberamente e consapevolmente scelta ma anche serenamente perpetuata, nella quale, comunque, è sempre intatta e presente la possibilità di uscirne, solo che lo si desideri e, ancora di più, uscirne allo
stesso modo in cui se ne é entrati, come una normale cessazione per dimissioni, queste si volontarie, del rapporto di lavoro.

Con parole che tendono a diventare quasi una dimenticata lezione di umanità, la Corte, a noi ed a sé stessa, ricorda che la scelta di vendere sesso “trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo”. Questi fattori possono essere non solo di ordine economico, ma anche situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la “naturale riluttanza” verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede”.
“Naturale riluttanza”, perché appartiene alla natura umana la ritrosia, meglio, il rifiuto, di una sessualità venduta, nel ricordo, potremmo dire oggi nella nostalgia, di un rapporto sessuale che sappia unire l’aspetto procreativo e l’aspetto unitivo e che nella totale gratuità, anche in senso letterale, faccia dono di sé all’altra persona e siacapace di costruire quell’unione tra uomo e donna che ne costituisce, quale vertice e proposta per tutti, l’”una caro”.
“Naturale riluttanza”, perché la sessualità non si vende, ma può contribuire alla piena realizzazione della persona umana solo se donata nel contesto di quell’incontro tra uomo e donna che fonda una relazione aperta alla vita e caratterizzata da quel “per sempre” che vive dentro ogni autentico amore.
“Naturale riluttanza” perché la nostra natura è chiamata al dono non alla vendita di sé, perché la prostituzione, anche volontaria e consapevole, non è, come afferma la Corte di appello di Bari, “una modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità verso la dazione di diverse utilità” (scusate la lunghezza della citazione ma è da brividi alla schiena), espressione nella quale anche solo il termine “erogazione” evoca scenari mercantilistici assolutamente fuori luogo, ma una modalità distruttiva della persona, che la degrada e la rende incapace di perseguire il suo vero bene.
In questa prospettiva rappresenta una scelta adeguata quella di non punire la prostituta, soggetto vulnerabile, collocato in un contesto di pericolosità, spesso anche criminale e di sanzionare penalmente “a tappeto” le condotte parallele alla prostituzione.
Non è, sottolinea la Corte, un modello imposto dalla carta costituzionale.
Al contrario, vi sono modelli proibizionistici o neo-proibizionistici, e le scelte di politica criminale operate dal legislatore parlamentare se non trascendono in irragionevolezza o disparità di trattamento sono incensurabili dalla Corte stessa, ma l’accento, ripetutamente posto dalla Corte sulla qualificazione della prostituta come soggetto “vulnerabile” rappresenta, a parere di chi scrive, un segnale di apprezzamento per la scelta della legge Merlin.

Non ha miglior sorte il richiamo della Corte barese all’articolo 41 della costituzione, violato dalla legge Merlin, laddove quest’ultima limiterebbe la libera iniziativa economica della prostituta che non potrebbe avvalersi di reclutatori e favoreggiatori per intraprendere e sviluppare l’attività di meretricio.
Se la Corte costituzionale conclude affermando che la prostituzione volontaria, lungi dall’essere espressione di un diritto inviolabile della persona umana è nient’altro, a tutto concedere, che una mera attività economica, è sufficiente alla Corte precisare, per contrastare il richiamo operato dalla Corte di Appello, che lo stesso articolo 41 della costituzione non si limita a riconoscere la liberà di iniziativa economica, ma stabilisce che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Con il che si perviene a quello che appare essere lo snodo cruciale della sentenza.
La Corte nega che la legge Merlin tuteli il buon costume (una sorta di percezione ondivaga e mutevole nel tempo che rasenta un concetto di moralità pubblica che si identifica con un pensiero uniforme, relativistico e “politicamente corretto”) o la dignità in senso soggettivo (una percezione di sé sganciata da ogni parametro valutativo e ancorata al desiderio “ora ed adesso”) ma, in linea anche con la recente giurisprudenza della Corte di cassazione, sostiene che, proprio come nell’articolo 41 della Costituzione, la dignità tutelata dalla legge Merlin è da intendere in senso oggettivo.
Se solo poniamo mente all’ambito del lavoro subordinato è evidente che riferirsi ad una concezione soggettiva della dignità significherebbe svuotare di contenuto praticamente tutta la normativa che, a partire da una nozione oggettiva della dignità del lavoratore, ha fissato rigorosi limiti alle pattuizioni tra lavoratore e datore di lavoro.
Dal punto di vista dei rapporti economici il lavoratore dipendente è soggetto vulnerabile e il legislatore non riconosce la legittimità e la validità di pattuizioni che, per esempio, non contemplano il riposo settimanale, le ferie, non rispettano l’orario di lavoro, prevedono sanzioni disciplinari diverse da quelle tipizzate.
Il legislatore non ritiene possibili indagini sulle opinioni del lavoratori e sottopone a limitazioni anche la possibilità di riprese audiovisive sul luogo di lavoro.
Il lavoratore non può acconsentire a modifiche che si tradurrebbero in una lesione della dignità, non come esso lavoratore o il datore di lavoro la intendono, ma come, in senso oggettivo, l’ha intesa l’ordinamento giuridico e l’immagine di persona dallo stesso condivisa e sostenuta, anche con adeguate sanzioni.
La dignità della persona ha un nocciolo duro che non può essere oggetto di atti di disposizione (“la dignità non è in vendita”), neppure da parte della stessa persona e, seguendo questa impostazione, la giurisprudenza non ha mai riconosciuto efficacia scriminante al consenso della prostituta, che avrebbe significato l’inconfigurabilità del reato.
La giurisprudenza ha costantemente negato al reclutatore ed al favoreggiatore la prova che la prostituta abbia manifestato, in piena libertà e consapevolezza, il proprio consenso all’attività del reclutatore e del favoreggiatore, essendo del tutto irrilevante il consenso che la prostituta può dare ad una attività che lede la sua dignità di persona ad un tale livello di profondità da offendere fin nei fondamenti l’ordinamento giuridico.
E il reclutatore e il favoreggiatore non saranno ammessi a tale prova neanche in futuro.

La legge Merlin si muove in una prospettiva “abolizionistica” della prostituzione e punisce una vasta gamma di comportamenti, anche precedenti l’attività di meretricio ed anche comportamenti collaterali, li punisce anche a prescindere dal vantaggio che il colpevole ne possa trarre (perché non immaginare qualcuno, abbagliato dalle tante opinioni che circondano la sessualità, che induce alla prostituzione nella convinzione che si tratti di attività nella quale la prostituta trovi una gratificazione personale?), rappresentando questa una forma di tutela anticipata della dignità della persona lesa dall’attività di prostituzione.
E, allora e finalmente, l’autodeterminazione cessa di essere un valore assoluto, spesso incapace di proteggere proprio i soggetti più deboli, un idolo astratto e solitario, ma diventa essa pure soggetta alla verifica volta ad impedire che venga lesa la dignità della persona, che rappresenta il vero valore della persona in un’ottica oggettiva e relazionale.
Il diritto inviolabile, ha sottolineato la Corte, è strettamente connesso al vero bene della persona e ne esalta il valore e per questa ragione è sostenuto e favorito nella sua realizzazione dalle istituzioni pubbliche e dall’ordinamento giuridico.
Non così per la prostituzione che è attività contraria alla dignità della persona.
L’autodeterminazione cade dal piedistallo ed è soggetta ad un vaglio proprio in forza di quel nocciolo duro, costituito dalla dignità della persona.
Perché non dobbiamo dimenticare, come ricorda ancora Fiorella Nash, che ogni diritto inviolabile è al tempo stesso inalienabile e la dignità non è alienabile, non è disponibile neanche dallo stesso soggetto cui si riferisce.

Due sono le grandi ed evocative parole che la sentenza della Corte mette in contrapposizione, evitando ogni commistione foriera di nefasti sviluppi:
– il bene della persona, rappresentato dalla sua dignità, che allo Stato è chiesto di riconoscere, rispettare e valorizzare;
– l’autodeterminazione, anche nella sfera sessuale, assunta a valore primo ed insindacabile, mito formalistico e solitario, frutto dell‘individualismo più esasperato.
Mentre l’individualismo asseconda una libertà “da”, la dignità conduce ad una libertà “di” e proprio a tutela di quest’ultima l’ordinamento individua pericolosi comportamenti che, sulla base di una ragionevole prospettazione di ciò che normalmente accade (“id quod plerumque accidit”), conducono alla distruzione della persona e della sua inerente dignità.
La boccata di ossigeno che questa sentenza offre e, purtroppo, bruscamente interrotta dal pensiero delle tematiche del fine vita e dalla diversa impostazione seguita dalla Corte al riguardo.
Abbiamo l’impressione di essere di fronte a due corti costituzionali.
Anche nel suicidio l’ordinamento ha scelto di non punire il soggetto “vulnerabile”, come avrebbe potuto fare nel caso di fallito tentativo o rivalendosi sui beni del suicida.
E appare un certo parallelismo tra il suicida e la prostituta. Entrambi sono soggetti vulnerabili e, con intrigante similitudine tra le due normative, come la legge Merlin non sanziona la prostituta, l’articolo 580 del codice penale non sanziona il suicida ma le condotte di istigazione e aiuto al suicidio, anche con l’uguaglianza terminologica espressa dal termine “favorire”.
Come è possibile non cogliere analogie nella situazione della prostituta e del suicida? Come non ritenerli entrambi soggetti vulnerabili? Come è possibile non ravvisare le medesime situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali capaci di indebolire “la naturale riluttanza verso il suicidio”, per applicare alla situazione del suicida le medesime espressioni usate dalla Corte nei confronti della prostituta?
Non c’è un diritto inalienabile a prostituirsi e, al contrario, è ravvisabile un diritto, meritevole di tutela costituzionale a “morire velocemente” e a non “recare dolorose condivisioni emotive alle persone care che stanno intorno all’aspirante suicida”, così traducendo in linguaggio piano, questa volta, argomentazioni utilizzate dalla stessa Corte nell’ordinanza relativa al caso Cappato?
Occorre comprendere: l’autodeterminazione sessuale è un bene maggiore della vita?
Non c’è un diritto costituzionale a prostituirsi ma c’è un diritto costituzionale a morire e, addirittura, a morire “velocemente”?
Perché lo Stato che ha scelto di non ingerirsi nel “mercato del sesso” a tutela della dignità delle persone, ora sarebbe costituzionalmente obbligato a gestire il mercato della morte?
E perché, da un lato la tutela anticipata della dignità della donna, che si realizza con le varie ipotesi incriminatrici della legge Merlin non è contraria alla costituzione perché rappresenta una sorta di tutela “avanzata”, trattandosi di tutela della dignità realizzata nello stadio della semplice esposizione a pericolo (evidente nel caso dell’induzione e del reclutamento) e, dall’altro, la tutela anticipata del bene della vita attraverso l’incriminazione di chi agevola o favorisce il suicidio sarebbero costituzionalmente illegittime?
E perché si intende riconoscere un ruolo al consenso dell’aspirante suicida e, invece e giustamente, lo si nega a quella della prostituta?
Quando si riconosce che la tutela della dignità della persona (contro la prostituzione) e della vita (contro il suicidio) sono valori fondanti dell’ordinamento, appartenendo al cuore della concezione di persona ed ai suoi diritti inviolabili, si perviene alla conclusione che vita e dignità sono inviolabili ed inalienabili, anche prevalenti rispetto ad un mistificante diritto all’autodeterminazione.
E se l’ordinamento, per ragioni di opportunità e di attenzione per la vulnerabilità della prostituta e del suicida, non punisce le loro condotte, la sanzione penale, attesi i fondamentali valori giuridici in campo, non può non colpire coloro che per qualunque ragione concorrono a condotte che cagionano la morte, oseremmo dire fisica o spirituale, della persona o espongono a pericolo gli stessi beni di rilievo costituzionale (vita e dignità oggettiva della persona).
Da questo punto di vista si appalesa una strisciante somiglianza tra chi aiuta o favorisce il suicidio e chi recluta o favorisce l’attività della prostituta.
Ed è certamente significativo che tale accostamento sia stato rilevato dagli imputati nel processo, i quali hanno evidenziato una qual certa incongruenza nell’ordinamento, o per lo meno nelle sue linee di tendenza, nel consentire rispetto al bene della vita quella ingerenza da parte di terzi che non è consentita nell’attività di meretricio.
Ovviamente tali considerazioni meriterebbero un diverso e più pregnante approfondimento.
In questa sede ci si può limitare a prendere atto che il confronto tra dignità e autodeterminazione si è concluso con il riconoscimento della radicata presenza nell’ordinamento, anche di rango costituzionale, della dignità intesa in senso oggettivo e che questa dignità, appartenendo al novero dei diritti inviolabili e inalienabili, prevale sul diritto all’autodeterminazione del singolo, specie se in situazioni di vulnerabilità ma questa vulnerabilità è “in re ipsa” laddove le scelte che la persona compie sono in contrapposizione plateale e frontale con la dignità stessa.
A quel punto è chiesto all’ordinamento di intervenire, anche prima che la lesione della dignità si realizzi, in adempimento di quei doveri di solidarietà richiamati dallo stesso articolo 2 della costituzione, quegli stessi doveri che ci portano a ritenere che non compia alcun reato colui che trattiene il suicida dal compiere il gesto estremo e, al contrario, a ritenere colpevole chi agevola (anche trasportando in automobile verso il luogo dove il suicidio sarà consumato) il suicidio stesso.
In una prospettiva che ritiene piena la discrezionalità del legislatore nel non punire il soggetto debole che, comunque, con il suo comportamento lede la propria dignità oggettiva di persona (alla prostituta la Corte aggiunge il consumatore di stupefacenti), quindi evitando accuse di “paternalismo penale”, la Corte ribadisce che non vi è alcun contrasto con la Costituzione nel punire comportamenti che non solo ledono ma mettono in pericolo la dignità oggettiva.
Perché esiste la “dignità oggettiva” della persona ed è riconoscibile ed individuabile nei suoi tratti costitutivi.
E questa finale considerazione, nella nostra epoca di dittatura del relatisvismo, soggettivismo libertario e onnipotenza del desiderio, potrebbe essere un buon punto di partenza per altri percorsi giurisprudenziali.

dott Marco Schiavi

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