L’obiezione di coscienza

L’obiezione di coscienza (OC) è da tempo oggetto di attacchi volti ad una sua drastica riduzione, se non addirittura eliminazione, nella prospettiva di una “guerra globale alla coscienza”, ritenuta subalterna alla legge.

Alcuni, tra i tanti, inequivocabili segnali. 

La Corte Suprema del Regno Unito in data 17 dicembre 2014 ha negato il diritto all’OC a due ostetriche, ritenendo che l’OC possa essere sollevata solo dal personale medico direttamente coinvolto nell’aborto. 

La vicenda dell’ostetrica dell’ospedale di Voghera, costretta alle dimissioni per avere esercitato OC alla pillola del giorno dopo, in applicazione del codice deontologico che contempla espressamente la clausola di coscienza. 

La decisione, resa nota l’8 marzo 2014, del Comitato Europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, di accoglimento del ricorso presentato tra gli altri, da International Planned Parenthood, con la quale si è richiamata l’Italia perché l’OC contemplata dalla legge 194 impedisce la corretta applicazione della legge ovvero del “diritto all’aborto”, nonostante l’ultima relazione del Ministero della Sanita’, rilasciata nell’ottobre 2014, affermi che il numero degli obiettori di coscienza è congruo rispetto alle IVG e che la numerosità di punti di IVG appare più che sufficiente. 

L’OC è giudicata una “disonorevole disobbedienza”, un venir meno ai doveri del medico consistente nell’anteporre le proprie convinzioni morali o religiose agli interessi di cura del paziente, ritenendo l’OC un abuso di autorità e fiducia del medico, che richiede reazioni disciplinari e azioni delle autorità nazionali ed internazionali e concludendo con l’affermazione che l’OC non è altro che un pretesto per non eseguire il proprio lavoro (Fiala e Arthur, Dickens). 

Da ultimo, si è negata la prevalenza della responsabilità morale verso il feto, affermando che la moralità della scelta abortiva risiede nella valutazione di altri interessi, tra i quali l’integrazione del nascituro nella vita della donna (Mackenzie), negando dignità di persona all’embrione e riducendolo ad una parte del corpo della donna privo di diritto alcuno. 

L’OC è riconosciuta a livello internazionale da numerose convenzioni (Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, Patto Internazionale sui diritti civili e politici, Convenzione Europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, tra le altre), nonché da legislazioni nazionali e la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo, non certo amica delle ragioni pro-life, ha sempre negato l’esistenza di un diritto all’aborto “on demand”, riconoscendo la presenza di confliggenti interessi, tra i quali la libertà di coscienza dei soggetti sanitari e delle istituzioni mediche (Puppinck).

In maniera ancora più chiara l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa con la risoluzione 1763 del 2010 ha affermato che deve essere garantito a persone, ospedali e istituzioni, che non possono essere obbligati o discriminati, il diritto all’OC, dando atto che nella grande maggioranza dei Paesi l’OC è adeguatamente motivata con una chiara cornice legale. 

L’OC è, dunque, un diritto soggettivo, ma quale è il suo fondamento?

Per comprenderlo occorre partire dalla considerazione che l’aborto rappresenta un conflitto con l’ordinamento costituzionale, avendo il diritto alla vita del concepito indubbia valenza costituzionale, come affermato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza 27/75 ed in maniera più pregnante con

la sentenza 35/97, pur senza averne tratto tutte le necessarie e logiche implicazioni. In particolare nella sentenza 27/1975 la Corte Costituzionale ha ricondotto la liceita dell’aborto alla stato di necessità, con confini allargati, ma non all’esercizio di un diritto di scelta della donna.

Nel momento in cui l’ordinamento, attraverso l’aborto, permette condotte che offendono diritti inviolabili il soggetto tenuto ad agire richiama la coscienza ma, contemporaneamente, afferma fedeltà incondizionata a quello stesso ordinamento costituzionale che nell’articolo 2 fa salvi i diritti inviolabili della persona, tra i quali rientra il nascituro ed il suo diritto alla vita (Eusebi).

L’obiezione di coscienza consente, quindi, di dare effettività ai diritti inviolabili, i quali, senza l’obiezione stessa, sarebbe soggetti all’arbitrio della maggioranza e non fungerebbero, invece, da limite alla dittatura della maggioranza.

L’obiezione di coscienza non rappresenta, dunque, una eccezione o un privilegio concesso a religioni od ideologie, ma è un recupero di legalità costituzionale, è conformità all’ordinamento (Casini, Dalla Torre). 

Il rilievo costituzionale che la coscienza individuale possiede è fondato non su credenze soggettive ma sui diritti inviolabili che il nostro ordinamento non crea ma riconosce inscritti, come sono, nella natura dell’essere umano, dal concepimento alla morte. 

Il riconoscimento dell’OC a partire dal servizio militare, eccezione all’articolo 52 della Costituzione, è passato nella legge 194, ha avuto rilevanza nella normativa sulla procreazione assistita che coinvolge la vita a partire dalla fecondazione ed è stato previsto anche nell’ambito della sperimentazione animale (non in quella umana, come ha rilevato, quasi con rammarico, il CNB). Nella, non auspicabile, ipotesi di una previsione normativa delle pratiche eutanasiche l’OC, non potrà mancare e non casualmente i nemici dell’obiezione di coscienza nell’ambito dell’aborto non la prevedono nei loro disegni di legge sull’eutanasia. 

In conclusione, l’obiezione di coscienza è garanzia di libertà’ e democrazia per tutti, impedisce la “dittatura” della maggioranza, non è un “regalo” ai cattolici, ma è un segno di civiltà giuridica e per questo la sua tutela deve rappresentare un interesse di tutti. 

Marco Schiavi

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