Quale base legislativa per le sentenze?

Quale base legislativa per le sentenze?
di Marco Schiavi
 
 
La sentenza 13525/2016 della Corte di Cassazione, depositata il 5 aprile 2016, conferma l’assoluzione di una coppia italiana (uomo-donna) che si era recata in Ucraina ed aveva fatto ricorso alla pratica dell’utero in affitto, fornendo alla madre naturale, nel cui utero sono stati impiantati, gli  embrioni derivanti dalla fecondazione di spermatozoi dell’uomo della coppia e di ovuli la cui provenienza era ignota. A seguito della nascita del bambino veniva redatto un certificato di nascita, secondo la legge ucraina, nella quale l’uomo e la donna della coppia italiana venivano indicati come genitori, non la madre maturale che aveva partorito a seguito dell’impianto degli embrioni.
Tale certificato era presentato alla cancelleria del consolato italiano di Kiev in Ucraina per la trascrizione nei registri dello stato civile del comune di Pozzuoli. La coppia, secondo la prospettazione dell’accusa, dichiarava il falso attestando di essere genitori naturali del bambino (articolo 495 codice penale), alterava lo stato civile del neonato con la richiesta di far trascrivere presso il comune di Pozzuoli il certificato di nascita dal quale il neonato risultava figlio della coppia (articolo 567 comma secondo codice penale) e inducevano in inganno il pubblico ufficiale del comune di Pozzuoli il quale formava l’atto di nascita dal quale falsamente la coppia risultava composta dai genitori biologici (articolo 476 codice penale).
 
L’accusa verteva anche sulla violazione dell’articolo 12 comma 6 della legge 40/2004 che punisce la pratica dell’utero in affitto.
 
Occorre premettere che gli imputati erano già stati mandati assolti dal Giudice per le indagini preliminari (GIP) presso il Tribunale di Napoli:
– con riferimento ai reati previsti dal codice penale in quanto gli imputati non avevano dichiarato alcunché, ma si erano semplicemente limitati a richiedere la trascrizione nei registri dello stato civile del comune di Pozzuoli del certificato di nascita redatto in conformità alla legge  ucraina;
– con riferimento alla previsione di cui alla legge 40/2004, perché gli imputati ritenevano ”ragionevolmente” di avere esercitato un loro diritto, stante il quadro normativo e giurisprudenziale vigente in Italia, specie a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 162/2014 che ha reso lecita la fecondazione eterologa, nonché il contesto giuridico internazionale, con l’ormai usuale accenno ai principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed al suo braccio giudiziario, ovvero la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (CEDU).
 
La Corte di Cassazione conferma tale pronuncia del GIP, sia pure correggendone le motivazioni.
 
Per quanto riguarda il reato di cui alla legge 40/2004 la Corte di Cassazione sostiene che, trattandosi di un reato commesso all’estero, non è chiaro se per punirlo in Italia occorra che sia previsto come reato dalla legge italiana e dalla legge del luogo ove il reato è commesso.
In Ucraina la maternità surrogata non è, infatti, prevista come reato. La Corte di Cassazione rileva che vi è un contrasto giurisprudenziale sul punto, in quanto alcuna pronunce sostengono la sufficienza della previsione come reato della sola legge italiane, altre richiedono la cd doppia incriminazione, ovvero che il fatto sia previsto come reato sia dalla legge italiana che dalla legge del luogo ove il fatto è commesso. Pertanto, a parere della Corte, tale contrasto induce a ritenere praticamente impossibile per il cittadino conoscere se il fatto commesso sia reato o meno per la legge italiana. Se la preventiva conoscenza della legge costituisce un presupposto della colpevolezza, l’impossibilità di tale conoscenza conduce all’assoluzione dell’imputato. Il tutto condito con un richiamo alla CEDU.
Per quanto riguarda i reati di cui al codice penale, la Corte di Cassazione sostiene che l’ufficiale dello stato civile italiano non ha formato alcun atto falso, ma si è solo limitato a trascrivere un atto riguardante un cittadino italiano (il neonato), legittimamente formato secondo la legge dello stato ucraino e da parte degli imputati vi è stata soltanto una richiesta di trascrizione, senza alcuna falsa dichiarazione o attestazione.
 
Senza particolare sforzo possiamo enucleare dalla sentenza della suprema magistratura una sorta di vademecum per ottenere l’assoluzione:
– recarsi in un Paese in cui la maternità surrogata è legittima, regolamentata con particolare riferimento all’esclusione di ogni menzione della madre naturale da sostituire in ogni certificato di nascita con il nome della donna della coppia italiana;
– limitarsi con attenzione a richiedere la trascrizione nei registri dello stato civile il certificato di nascita formato all’estero, senza ulteriori dichiarazioni, come dire, esibire in silenzio il certificato che riporta i nomi dei due cittadini italiani quali padre e madre del neonato.
 
Non è facile commentare due pronunce ed in particolare quella della Corte di Cassazione che presentano tanti e particolari aspetti e che, considerata la conclusione, lasciano l’amara sensazione che “fatta la legge trovato l’inganno”. Invero per i sostenitori della legittimità penale del “turismo riproduttivo” non vi è neppure la necessità di modificare la legge, avendo già ottenuto per sentenza la liceità del comportamento.
Una situazione che ricorda quella della “stepchild adoption” dove, in presenza di una normativa in materia di adozione chiara nel precludere l’adozione alla coppie omosessuali, le sentenze dei Tribunali e le conferme delle Corti d’Appello che hanno riconosciuto in Italia gli effetti di adozioni disposte all’estero, hanno, purtroppo e di fatto, reso superfluo la specifica previsione di tale adozione nella disciplina delle unioni civili, senza alcun rispetto per il dibattito parlamentare in corso che ha manifestato, sino ad ora, la chiara volontà di non legittimare tale forma di adozione.
Due risultati ottenuti per via giudiziaria, laddove le sentenze non sembrano aver riempito alcun vuoto normativo, ma, semplicemente, imposto orientamenti interpretativi caratterizzati da un alto tasso di “creatività”.
L’utero in affitto, nonostante la solenne declaratoria della legge 40/2004, riceve un pieno riconoscimento dal nostro sistema giuridico, perché all’assoluzione si accompagna, come la sentenza del GIP ricorda, l’autorizzazione alla trascrizione dell’atto di nascita nei registri dello stato civile del Comune di Pozzuoli, previa autorizzazione del Pubblico Ministero del Tribunale di Napoli Affari Civili, il quale Pubblico Ministero, dopo aver ricevuto copia degli atti dell’indagine penale, non ha ritenuto di avviare alcuna iniziativa correlata alla trascrizione stessa, disponendo l’archiviazione sulla base della “semplice” argomentazione che l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa comporta la liceità della pratica dell’utero in affitto, assimilando in questo modo due fattispecie completamente differenti.
Al riguardo si rileva che, se la fecondazione omologa e quella eterologa si pongono entrambe in contrasto con il necessario carattere unitivo e procreativo che l’atto coniugale deve avere e se hanno in comune l’intervento di un terzo soggetto esterno alla coppia nella fase della fecondazione, dal punto di vista del vigente quadro normativo, anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la fecondazione eterologa e l’utero in affitto sono diversamente considerati. La sanzione penale rimane, infatti, a presidio del divieto di utero in affitto, fattispecie nella quale l’atto di disposizione del proprio corpo da parte della madre naturale è ritenuto intollerabile dall’ordinamento giuridico in quanto stravolgimento di principi e di valori  fondamentali perché connessi in maniera intima alla persona umana.
Insomma, una vittoria su tutta la linea dei sostenitori dell’utero in affitto, con argomentazioni che possono trovare applicazione anche nell’ipotesi di totale estranietà biologica della coppia, ovvero ovuli e spermatozoi appartenenti a soggetti diversi dei componenti la coppia, oltre, ovviamente, l’utero.
 
Proviamo a mettere ordine (per quel poco che riusciremo a fare).
 
La pratica della maternità surrogata è espressamente vietata dall’articolo 12 sesto comma della legge 40/2004 ed è punita con la pena della reclusione da tre a due anni e della multa da 600.000 ad un milione di euro.
 
Nulla quaestio laddove il reato sia commesso in Italia, le questioni sorgono nell’ipotesi in cui il reato sia commesso all’estero. Al riguardo il nostro sistema parte dal principio di territorialità sancito dall’articolo 6 del codice penale: ”Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”. Quindi non è importante la nazionalità del reo, ma che il reato sia commesso nel territorio dello Stato italiano. Lo stesso articolo 6 considera il reato commesso nel territorio dello Stato italiano quando nello stesso territorio si è verificata in tutto o in parte l’azione o l’omissione che costituisce il reato (acquisto delle armi per l’omicidio eseguito all’estero, raggiro di una persona che a seguito della truffa perderà il denaro posseduto all’estero) o si verifica l’evento (la morte, la perdita patrimoniale). Per i delitti commessi all’estero l’ordinamento, tranne eccezioni, si disinteressa. Ma in alcuni casi punisce il cittadino o addirittura lo straniero che commette il reato all’estero. Questo è il caso della maternità surrogata, per la quale è prevista la sanzione penale nei confronti del cittadino italiano che commette tale reato all’estero, con la condizione di procedibilità rappresentata dalla richiesta del Ministro della Giustizia, senza la quale il processo non ha inizio. 
 
Nel caso che stiamo esaminando era ritualmente intervenuta la richiesta del Ministro della Giustizia, ma sia il GIP che la Corte di Cassazione non la ritengono sufficiente ai fini della condanna.
 
Il ragionamento della Corte di Cassazione ci riporta alla questione della necessità o meno della cd doppia incriminazione del fatto: quando si punisce un reato commesso all’estero occorre che tale reato sia previsto come tale anche dalla legge dello stato dove il reato è commesso?
Richiedere che il fatto sia previsto come reato dalla legge italiana e dalla legge dello stato ove il fatto è commesso porta a privare di ogni rilevanza le previsioni del nostro ordinamento. Invero si tratterebbe di una sostanziale abdicazione ai principi ed ai valori, anche di rango costituzionale, che l’ordinamento penale tutela, come è evidente proprio nel caso della maternità surrogata dove sono in gioco rapporti di filiazione, tutela della maternità e della donna, atti di disposizione del proprio corpo e, soprattutto, minori che diventano oggetto di compravendita. L’ordinamento penale tutela interessi pubblici e se determinanti reati possono essere perseguiti anche se commessi dal cittadino all’estero, richiedere la cd doppia incriminazione si traduce in una rinuncia alla tutela di quegli interessi, rinuncia che avviene sulla base di una valutazione compiuta da ordinamenti che possono essere ispirati e guidati da principi antitetici a quelli sui quali si fonda il nostro ordinamento, anche di rango costituzionale e che la legge penale tutela con la massima sanzione. 
Senza dimenticare, come la maternità surrogata ci ricorda in maniera chiara, che tali reati commessi all’estero hanno un effetto tutt’altro che secondario nel nostro ordinamento, incidendo nelle relazioni e nelle configurazioni dei rapporti personali in maniera profonda e duratura.
 
La Corte di Cassazione, sorprendentemente, non prende posizione, ritenendo che, da un lato, non essendo stata risolta in senso univoco questa questione circa la necessità o meno della cd doppia incriminazione ciò comporti per il cittadino l’impossibilità di conoscenza della legge penale, dall’altro rinuncia ad interpretare la legge, a dare una soluzione interpretativa, a rimettere la questione alle Sezioni Unite, alle quali compete la risoluzione dei contrasti tra le sezioni semplici della Corte stessa. Eppure tra le funzioni della Corte di Cassazione è preminente la funzione nomofilattica che consiste nel garantire “l’esatta e uniforme interpretazione della legge” e, pertanto, come si può giustificare l’affermazione della Corte di Cassazione secondo la quale, una volta rilevato il contrasto, appare “la superfluità di affrontare il tema posto dall’indicato contrasto giurisprudenziale”, ovvero la necessità o meno della cd doppia incriminazione per punire il reato di maternità surrogata commesso dal cittadino italiano all’estero?
 
Come verranno decisi i successivi casi portati all’attenzione dei Tribunali e delle Corti d’Appello se la suprema magistratura di questo Paese ha rinunciato ad interpretare, mantenendo e perpetuando una situazione di “impossibilità di conoscenza della legge penale” da parte dei cittadini che a quella stessa legge sono sottoposti?
 
A prescindere da ogni valutazione concreta sulla situazione soggettiva dei cittadini italiani coinvolti nella vicenda ed anche ammesso che vi sia un contrasto giurisprudenziale che renda impossibile per il cittadino conoscere la legge, appare evidente che rinunciare a risolvere tale contrasto equivale, sul piano penale, ad una sorta di autorizzazione in bianco a recarsi all’estero in Paesi nei quali l’utero in affitto non è punito e compiere qualunque attività sino ad ottenere la trascrizione nei registri di stato civili come figlio proprio di chi non lo è, ma, anzi, è frutto di un commercio del corpo di donna.
Il GIP aveva mandato assolti gli imputati sul presupposto che essi avevano ritenuto di esercitare un diritto; alla Corte di Cassazione spettava, quale compito istituzionale, dichiarare se quel diritto esisteva, il diritto di recarsi in Ucraina, in India, negli Stati Uniti d’America e di avvalersi delle tecniche di maternità surrogata, da parte di coppie di sesso diverso o dello stesso sesso, uomini o donne singoli.
 
L’imputazione relativa ai reati di false dichiarazioni e di alterazione di stato previsti dal codice penale viene dalla Corte di Cassazione cancellata, confermando l’assoluzione del GIP, con un complesso ragionamento dietro il quale si cela una affermazione di sorprendente  semplicità. Secondo l’accusa i cittadini italiani si sono recati preso l’ufficio consolare di Kiev dichiarando di essere i genitori naturali del neonato, richiedendo la trascrizione dell’atto nei registri dello stato civile quali genitori naturali del neonato e inducendo in errore l’ufficiale dello stato civile di Pozzuoli che aveva successivamente trascritto secondo quanto da loro prospettato e richiesto. Questo era il capo d’imputazione. Per la Corte di Cassazione la realtà fattuale e giuridica è del tutto diversa:
– se l’atto di nascita è già formato non si può alterare alcunché e l’atto di nascita era già stato formato secondo la legge ucraina che ammette che possano essere indicati quali genitori naturali coloro che hanno affittato l’utero;
– i cittadini italiani non  hanno reso alcuna falsa dichiarazione ma si sono limitati a presentare l’atto di nascita per la trascrizione, la loro, scrive testualmente la Corte di Cassazione, è stata “una mera richiesta”, potremmo aggiungere “silenziosa” attraverso la sola esibizione dell’atto di nascita ucraino.
 
Invero la richiesta di trascrizione contiene, anche formalmente, un  riconoscimento di “filiazione”. Nel caso concreta si può affermare che la coppia “ha serbato maliziosamente il silenzio su alcune circostanze che aveva il dovere di fare conoscere” (come recita una sentenza della stessa Corte di Cassazione in materia di truffa alla quale segue la condanna del truffatore), quale il rapporto di filiazione e che, se conosciute, avrebbe portato l’autorità a negare la trascrizione nei registri di stato civile.
La stessa modulistica da compilare per i cittadini nati all’estero usa l’espressione “figlio”, specificando che trattasi di dichiarazione resa ai sensi del DPR 445/2000 (autocertificazione), ovvero sotto responsabilità penale. Inoltre, merita di essere sottolineato che la richiesta di trascrizione nei registri di stato civile ha come presupposto la filiazione e che nel nostro ordinamento si è genitori o per filiazione naturale o per adozione, non per maternità surrogata. Non si può assimilare ad una mera richiesta tutta l’attività svolta dai cittadini davanti all’ufficio consolare. Tale richiesta presuppone necessariamente e anche formalmente una attestazione circa lo stato di filiazione. Ridurre il tutto ad una mera richiesta, la cui mancanza dei relativi presupposti é del tutto ininfluente, significa ridurne arbitrariamente il significato.
 
La sentenza della Corte di Cassazione affronta un altro aspetto. Come è noto con la sentenza 162/2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa. Non entriamo in una analisi, già compiuta da altri con dovizia di argomenti, di tale pronuncia. Merita di essere sottolineato che nella pronuncia del GIP si affaccia la tesi che la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe comportato una diversa lettura del divieto di cui all’articolo 12 sesto comma della legge 40/2004 relativo all’utero in affitto. La stessa difesa degli imputati davanti al GIP aveva avanzato la tesi che il divieto di cui al citato articolo 12 non si riferisse alla coppia ma all’attività del terzo (la clinica, i mediatori) svolta per scopo di lucro. Tale interpretazione contrasta in maniera evidente con la stessa lettera della legge che si riferisce al soggetto del reato come “chiunque” e che tra le attività punite prevede la “realizzazione”, apparendo quindi arbitraria ridurre l’ambito dei soggetti che possono essere autori di tale reato.
La declaratoria di illegittimità costituzionale della Corte Costituzionale ha riguardata unicamente la fecondazione eterologa e non ha minimamente toccato l’articolo 12 della legge 40/2004 ed il reato ivi previsto di utero in affitto. Ciononostante la pronuncia della Corte Costituzionale viene utilizzata dal GIP per argomentare nel senso che il confine tra fecondazione eterologa e utero in affitto è sottile, talmente sottile che i coniugi potevano essere indotti a ritenere di non violare alcuna norma di legge recandosi in Ucraina. La Corte di Cassazione non affronta questo profilo che appare particolarmente insidioso, configurando un tentativo di ritenere abrogata una norma penale che non è mai stata oggetto di pronuncia da parte della Corte Costituzionale e che prevede fattispecie e tutela interessi di diversa natura. Eppure è facile prevedere che la vigenza dell’articolo 12 e del divieto di utero in affitto ivi contenuto saranno oggetto di interpretazioni giurisprudenziali volte ad affermare una sorta di abrogazione tacita della norma penale proprio a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale.
 
E’ tempo di sintetiche e conclusive osservazioni. La sentenza della Corte di Cassazione rappresenta un salto di qualità nell’atteggiamento della giurisprudenza in tema di utero in affitto e dei reati correlati (articolo 12 legge 40/2004, alterazione stato civile e false dichiarazioni). Da una parte, la rinuncia ad interpretare la norma è funzionale a garantire, in attesa di una sentenza (quando arriverà?) che adempia alla funzione nomofilattica che spetta alla Corte di Cassazione, l’impunità per gli uteri affittati all’estero e, dall’altra, la completa svalutazione degli interessi tutelati dalle norme penali, ha un significativo riflesso anche nell’ambito amministrativo, con particolare riferimento alla trascrizione di atti di nascita formati in Paesi, ove è stata legalizzata la pratica dell’utero in affitto, nei registri dello stato civile italiani, come nella fattispecie concreta è avvenuto.
E così, mentre la politica discute, dividendosi tra chi intende dichiarare l’affitto dell’utero un “reato universale” e chi, invece, come l’Associazione radicale Luca Coscioni la vuole legalizzare, la giurisprudenza si è, ancora una volta, appropriata dello spazio che compete ai cittadini ed alle loro istituzioni democratiche e che significa, innanzi tutto, applicazione delle leggi vigenti e rispetto della funzione del Parlamento al quale solo spetta la loro modifica.
La vera particolarità è che questa volta la Corte di Cassazione ha operato tale appropriazione “decidendo di non decidere”, venendo meno ai suoi doveri istituzionali, il cui rigoroso adempimento è giustificazione dell’esistenza e fondamento della fiducia.

 

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