Quale rapporto fra alcune sentenze e la democrazia?

Quale rapporto fra alcune sentenze e la democrazia?
di Marco Schiavi
 

Antonin Gregory Scalia nasce a Trenton – New Jersey (Stati Uniti d’America) l’11 marzo 1936. Figlio unico di Catherine, nata negli Stati Uniti, figlia di emigrati italiani e di Salvatore Eugenio,  emigrato dalla Sicilia all’eta’ di 15 anni, quale figlio unico di italiani cattolici il piccolo Scalia non parte da una situazione favorevole per salire i gradini della scala sociale.

Antonin Scalia frequenta la Xavier High School, scuola fondata dai gesuiti e si laurea “cum laude” alla Georgetown University, la più antica istituzione scolastica dei gesuiti negli Stati Uniti; completa i suoi studi alla Law School della Harward University.  Come ricorda il suo compagno di classe William Stern, Scalia è il primo della classe, “era brillante, sopra chiunque altro”. Terminati gli studi inizia la carriera di avvocato, anche se il suo primario interesse appare l’insegnamento universitario. Nel 1971 è nominato ad un incarico pubblico dal Presidente Nixon, a cui seguiranno altri incarichi sotto la presidenza Ford. Durante la presidenza Carter ritorna all’insegnamento universitario, ma la sua carriera riprende con la presidenza Reagan e proprio da costui viene designato, con l’approvazione del Senato, giudice della Corte Suprema, il primo italo-americano chiamato a ricoprire tale prestigioso incarico.


La Corte Suprema degli Stati Uniti D’America è formata da nove giudici, nominati a vita, con la funzione primaria di giudicare la conformità delle leggi alla costituzione americana. Antonin Scalia è attualmente il giudice con la più lunga permanenza, una sorta di icona della Corte Suprema.
Sposato dal 1950 con Maureen McCharty, ha avuto nove figli e, ad oggi, ha più di 30 nipoti. Il giudice Scalia è una delle espressioni più significative dell’affermazione dei cattolici e degli italo-americani nella società statunitense, rappresenta un punto di riferimento giuridico per il mondo cattolico e quello pro-life in particolare. I traguardi raggiunti dal giudice Scalia testimoniano valori personali vissuti nella vita quotidiana, impegno personale e capacità professionali di livello eccelso.

 

Ma quale giudice della Corte Suprema si trova in minoranza anche su questioni che coinvolgono le sue convinzioni morali e religiose. Da questo punto di vista uno dei momenti più significativi si verifica allorquando il 26 giugno 2015 con la sentenza Obergefell v. Hodges la Corte Suprema, con una maggioranza di 5 a 4, dichiara che il diritto al matrimonio spetta anche alle coppie omosessuali, obbligando i singoli Stati a rilasciare licenze matrimoniali anche a favore di coppie omosessuali ed a riconoscere i matrimoni omosessuali celebrati in altri Stati.

 
Nel sistema giuridico statunitense alla motivazione delle decisioni possono accompagnarsi le “dissenting opinions” dei giudici che non hanno concorso all’approvazione della decisione stessa.
Il giudice Scalia, indomitamente, ha redatto la sua “dissenting opinions”.
 
Ragionando in maniera superficiale e partendo dalle convinzioni del giudice Scalia, ci si aspetta una critica di tipo morale sulla contrarietà alle leggi di natura di una tale unione, un richiamo alla tradizione giudaico-cristiana, una valutazione sulle conseguenze che tale unione comporta nella società ed i riflessi negativi che avrà nell’educazione dei figli, nonché un richiamo contrario al riconoscimento di “normalità”, quasi genetica, che all’omosessualità viene ad essere attribuito nella sentenza Obergefell v. Hodges.Con stupore si legge che il giudice Scalia inizia la sua “dissenting opinion” affermando che la sostanza del decreto non è di primaria importanza per lui, in quanto la legge può riconoscere qualunque legame sessuale e qualunque accordo di vita, con riflessi nell’ambito della tassazione e dei diritti ereditari. Per il giudice Scalia la sentenza rappresenta una “minaccia alla democrazia americana”.Restiamo stupiti. Ci pare fuori tema e un po’ eccessivo. L’argomento è la sentenza che riconosce il matrimonio omosessuale ed il giudice Scalia collega tale sentenza alla democrazia. Ci sono stati Paesi che hanno riconosciuto unioni e matrimoni dello stesso sesso e non pare, almeno nell’opinione fatta propria dai media dominanti,  siano diventati meno democratici. E poi, addirittura una minaccia? Il giudice Scalia va oltre e prova a convincerci.
 
E’ ben vero che le conseguenze sociali dell’introduzione nell’ordinamento giuridico del matrimonio omosessuale possono essere negative. Ma, ripete il giudice Scalia, non è di speciale importanza che cosa la legge preveda in tema di matrimonio, è, invece, ancora più importante individuare “chi governa una Nazione”. E questo significa che, secondo il giudice Scalia, con la sentenza della Corte Suprema, che non si è limitata a dichiarare legittimo il matrimonio omosessuale da parte degli Stati che lo avevano introdotto nella loro legislazione, ma ne ha imposto a tutti il riconoscimento, il governo di 320 milioni di americani diventa affidato, al di fuori e contro ogni regola costituzionale, a nove giudici che rapinano (“rob”) il popolo americano della più importante libertà, quella di governare se stesso.
Non solo. Fino a che la Suprema Corte non ha pronunciato la sua sentenza il pubblico dibattito nella società civile e politica americana si era espresso al suo meglio, con leggi, referendum e proposte. In maniera ragionata e rispettosa, i sostenitori delle opposte tesi hanno cercato di convincere i cittadini della bontà delle loro opinioni. Questo, dichiara con orgoglio il giudice Scalia, è come il sistema americano funziona.
L’intervento “a gamba tesa” dei giudici costituisce una nuda (“naked”) pretesa giudiziale ad un potere legislativo, anzi super legislativo. I giudici, continua il giudice Scalia, sono selezionati in base alle loro capacità giuridiche, non in base alla loro rappresentatività e, difatti, i nove giudici della Corte Suprema non sono per nulla rappresentativi della realtà americana. Impietosamente il giudice Scalia enumera tutte le evidenti tracce di mancanza di rappresentatività: tutti e nove hanno studiato ad Harward o ad Yale; quattro sono di New York; otto sono cresciuti in Stati della costa est od ovest; non vi è alcuno proveniente dal sud-ovest; non è presente cristiano evangelico o protestante di alcuna denominazione, pur trattandosi di realtà profondamente radicate nella società americana, anche in termini quantitativi.
In maniera inappellabile il giudice Scalia dichiara che “un sistema di governo che rende il Popolo subordinato ad un comitato di nuove giuristi non eletti non merita di essere chiamato democrazia”. In conclusione, non vi può essere trasformazione sociale, specie una così significativa quale quella scaturente dalla pronuncia della Corte Suprema, se non c’è rappresentanza.
Quale è il collegamento tra la “dissenting opinion” del giudice Scalia e la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 16 ottobre 2015 che ha, in sintesi, riconosciuto valida in Italia l’adozione di una bambina decretata a favore della compagna della madre, coppia omosessuale sposata in Spagna? Proviamo a ripercorrere quella che, in termini giuridici, rappresenta la “fattispecie concreta”, enucleando dalla stessa sentenza gli elementi fattuali. Due donne, entrambe italiane, SS e CC, intrecciano una relazione a partire dal 1999. SS, a seguito di fecondazione eterologa assistita in Spagna (all’epoca in Italia era proibita), partorisce X nel 2003. Solo SS riconosce X. Le due donne convivono, unitamente alla bambina e nel 2009 si uniscono in matrimonio secondo la legge civile spagnola, che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Su richiesta di ambedue, nel 2010 l’Autorità giudiziaria spagnola dichiara l’adozione della bambina X da parte di CC. Nel 2013 le due donne divorziano ed in tale sede vengono regolamentati non solo i rapporti tra loro, ma anche quelli con la bambina. Sul finire del 2013 CC si rivolge al Tribunale dei minorenni di Milano chiedendo che sia riconosciuto il provvedimento del giudice spagnolo che ha disposto a suo favore l’adozione della bambina. Il Tribunale di Milano respinge la domanda.
La Corte di Appello di Milano riconosce il provvedimento dell’autorità giudiziaria spagnola e dichiara efficace anche in Italia tale adozione. Al contrario la Corte d’Appello non accoglie la domanda volta a riconoscere anche in Italia il matrimonio omosessuale contratto dalle due donne all’estero.
La sentenza è accolta con grande entusiasmo dalla parte del mondo politico favorevole alle unioni omosessuali ed alla adozione da parte delle coppie omosessuali. In particolare il senatore Sergio Lo Giudice dichiara che “un Tribunale svela come sia perfettamente coerente con il nostro ordinamento giuridico un’adozione piena da parte di due genitori dello stesso sesso”.
Il termine “svela” usato dal senatore Lo Giudice genera un brivido lungo la schiena, per chi ritiene che l’applicazione della legge, sia una operazione logico giuridica della quale la motivazione deve dare conto, non un procedimento di tipo gnostico riservato a prescelti iniziati. Ma cerchiamo di capire dove sta nel panorama giurisprudenziale il “nuovo” di questa pronuncia, seguita recentemente da altro provvedimento della Corte d’Appello di Roma la cui fattispecie concreta presenta evidenti analogie (fecondazione eterologa eseguita all’estero, matrimonio omosessuale anch’esso celebrato all’estero e richiesta di adozione presentata in Italia).
Il punto di partenza è che in Italia l’adozione dei minori di età, disciplinata dalla legge 184/1983, è, come recita l’articolo 6 della legge, riservata ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Considerato che il matrimonio omosessuale non è ancora contemplato dalla nostra legislazione, tale articolo rappresenta uno sbarramento alla pretesa di adozione da parte delle coppie omosessuali. E, in effetti, anche nel caso deciso dalla Corte d’Appello di Milano, CC e SS avevamo avanzato la pretesa che fosse riconosciuto in Italia il matrimonio omosessuale celebrato all’estero, ma la Corte d’Appello ha respinto tale domanda. Attualmente la nostra legislazione non prevede il matrimonio omosessuale, la Corte Costituzionale ha ribadito più volte che non vi è alcun obbligo per il legislatore di introdurre tale istituto nel nostro ordinamento, le convenzioni internazionali, tra cui l’ormai nota Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali la cui tutela spetta alla Corte Europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, non possono essere in alcun modo interpretate nel senso di obbligare gli stati aderenti alla convenzione al matrimonio omosessuale, meno ancora si può richiamare la normativa europea che lascia alla competenza esclusiva degli Stati membri il diritto di famiglia.
In Italia il disegno di legge Cirinnà mira ad introdurre l’adozione da parte di coppie dello stesso non attraverso l’articolo 7 della legge 184/1983, riservato alle coppie coniugate, ma ampliando una ipotesi che nella legge è residuale, quella della cosiddetta “adozione in casi particolari”, che prevede casi nei quali l’adozione è consentita pur in mancanza del vincolo di coniugio.
In particolare, l’articolo 44 lettera b) della legge 184/1983 contempla l’ipotesi che l’adozione possa essere disposta a favore del coniuge nel caso in cui il minore sia figlio, anche adottivo, dell’altro coniuge. I casi possono essere quelli della morte di un coniuge alla quale segue un nuovo legame matrimoniale instaurato dal coniuge superstite o del secondo matrimonio contratto dal divorziato, con l’avvertenza che in tal caso la legge richiede l’assenso del genitore divorziato.
Ma tale “adozione in casi particolari” non ha gli stessi effetti dell’adozione cosiddetta piena, ovvero quella riservata ai coniugi uniti in matrimonio; infatti non conferisce all’adottato lo stato di figlio legittimo, non recide i legami dell’adottato con la famiglia di origine ovvero i legami di sangue e crea un vincolo unitamente con il genitore adottante e non con la famiglia di lui, il che significa che l’adottato non acquisisce nonni, nipoti e cugini. In questi diversità di effetti si evidenzia il carattere residuale ed eccezionale della fattispecie.
La legge 184/1983  intende garantire al minore adottato una famiglia formata da due genitori, sia pure adottivi, uomo e donna uniti in matrimonio e la cui durata, nell’ipotesi normale, di almeno tre anni rappresenta una prova del carattere duraturo del rapporto. Una scelta inequivocabile a favore della famiglia e fondata sul presupposto che lo sviluppo della personalità del minore deve avvenire in un rapporto con due figure genitoriali sessualmente distinte e complementari, maschio e femmina, anche nel caso di genitorialità legale, quale è l’adozione.
I sostenitori del matrimonio omosessuale sanno bene che mentre nell’opinione pubblica il sostegno al matrimonio omosessuale è significativo, al contrario, l’opinione pubblica, nella sua espressione maggioritaria, è ancora radicata nella convinzione che il minore necessita di un padre e di una madre per crescere ed essere educato nel modo ritenuto per il minore stesso maggiormente adeguato.
Per questo hanno preferito non attaccare frontalmente l’impianto della legge sull’adozione, ma fare riferimento a questa ipotesi particolare, per innestare il radicale cambiamento che si intende realizzare con il più volte modificato disegno di legge Cirinnà, il quale, nelle sue ultime versioni, si “limita” a prevedere che l’adozione è possibile anche qualora, trattandosi di persone dello stesso sesso, non vi sia rapporto di coniugio ma sussista l’unione civile, introdotta dallo stesso disegno di legge Cirinnà.
In sostanza, se sussiste una unione civile tra due persone dello stesso sesso, il compagno/a può adottare il figlio dell’altro/a, detto in termini inglesi (tanto per nascondere ancora di più i reali intendimenti) “stepchild adoption”. Ovviamente non ha senso e sul piano dell’immagine nella pubblica opinione non promette nulla di buono, spiegare come è possibile che in una coppia omosessuale uno dei componenti possa avere un figlio  quando, molto probabilmente, non ha mai avuto una relazione sessuale procreativa con una persona dell’altro sesso, ma la risposta, tenuta “silenziosa”, è la fecondazione eterologa, l’adozione all’estero nei Paesi nei quali è consentita anche a singoli od a coppie omosessuali o, meglio ancora, la maternità surrogata (“utero in affitto” è una espressione che si tende ad evitare) all’estero e con pochi problemi giuridici.
Quindi l’ipotesi più semplice e scevra da complicazioni e che diventerà realtà con la temuta approvazione del disegno di legge Cirinnà è la seguente: l’uomo o la donna della coppia omosessuale si recano all’estero ed utilizzando il proprio seme od ovulo fecondano una donna, indiana, statunitense od ucraina (dipende da quanto si vuole e si può spendere) e tornano in Italia con un figlio che è biologicamente proprio; la coppia si reca in Comune per formalizzare l’unione civile e poi il componente non genitore della coppia chiede di adottare il figlio del genitore, senza che alcuno possa obiettare alcunché.
Il provvedimento della Corte d’Appello di Milano dichiara l’efficacia in Italia del provvedimento dell’autorità giudiziaria spagnola con il quale è stata disposta l’adozione e ritiene si tratti di una adozione “piena”.
Ma come, l’adozione piena non è consentita solo alle coppie coniugate? Non ha la Corte d’Appello rigettato la richiesta delle coppia volta al riconoscimento del matrimonio omosessuale?
Il ragionamento nel quale si sostanzia la motivazione del provvedimento della Corte d’Appello, è ricco di richiami normativi brevi, come per comunicare al lettore l’idea che non è proprio il caso di approfondire, talmente si tratta di evidenze. Eppure: cosa c’entra il richiamo all’articolo 30 della Costituzione per cui “la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”?  Il problema dell’adozione è individuare chi può essere adottato e soprattutto chi può adottare e nessuno ha mani ipotizzato un contrasto della legge 183/1984 con tale norma di rango costituzionale.
Si cita la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 nella parte in cui prevede “l’interesse superiore del fanciullo”, ma ci si dimentica gli articoli della convenzione stessa che sono inequivoci nel parlare di padre e di madre, di diritto a conoscere i genitori e ad essere allevati da essi, a conoscere la propria identità ed i precedenti sanitari. Tutto questo, che rappresenta l’interesse superiore del fanciullo, è obliterato, concedendo all’interprete il diritto, senza alcun riferimento vincolante, di individuare, quasi in totale libertà, tale interesse, in un caso concreto dove la fecondazione eterologa ha già privato la bambina degli stessi diritti che la Convenzione le riconosce.
Non poteva mancare, ormai è un “must” nella motivazione di tante sentenze, il riferimento alla Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentale nella parte in cui vieta le discriminazioni. Francamente non si comprende il collegamento con il caso all’esame della Corte, a meno che non si intenda la discriminazione che subirebbero le coppie omosessuali ed i singoli nei confronti delle coppie eterosessuali coniugate nell’accesso all’adozione, ma, prima di scrivere un’argomentazione del genere che, dal punto di vista del rispetto della legge,  potrebbe essere posta sullo stesso piano di una critica alla natura che non rispetta il diritto dell’uomo a partorire e lo discrimina nei confronti della donna, la penna dell’estensore del provvedimento si ferma.
Il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, laddove contempla il diritto del minore ad avere personali e diretti contatti con i due genitori, è una sorta di petizione di principio nella misura in cui o si riferisce ai genitori biologici (la domanda sarebbe “dove è il padre?”) o intende rimandare alla definizione di “genitori” della quale la Corte d’Appello intende essere una sorta di produttore unico in regime di monopolio giuridico.
Merita una particolare attenzione la modalità con la quale viene richiamata la sentenza della Corte di Cassazione numero 601 del 2013. Tale sentenza riguardava il caso di un uomo di religione musulmana il quale, non unito in matrimonio, aveva avuto un figlio da un donna ex tossicodipendente che successivamente aveva instaurato una relazione sentimentale e di convivenza con una ex educatrice della comunità di recupero nella quale era stata ospitata. Nel suo ricorso il padre contestava che tale ambiente fosse idoneo per la crescita del bambino.
Orbene la Corte di Cassazione non afferma, come la trasposizione e l’uso del virgolettato da parte della Corte d’Appello inducono a credere, che costituisce mero pregiudizio ritenere che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Val la pena notare l’uso del termine “famiglia” che, fuori da ogni contesto normativo di riferimento (che, infatti, non è richiamato dalla Corte d’Appello),  sta acquistando, anche nel linguaggio giurisprudenziale, un grado di evanescenza, inconsistenza e incapacità di definizione ignoto alla scienza giuridica.
Comunque, al contrario, la Corte di Cassazione da una parte afferma che il padre non ha fornito alcuna specificazione delle ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del bambino dell’ambiente (madre ex tossicodipendente e convivente ex educatrice della comunità di recupero) in cui questi viveva e, pertanto,  la ragione fondamentale del rigetto del ricorso proposto è la mancanza di prova; in secondo luogo la Corte di Cassazione afferma che il padre non ha posto alla base delle sue doglianze certezze scientifiche o dati di esperienza, ma ha dato per scontato ciò che è da dimostrare. La Corte di Cassazione, in sostanza, non prende minimamente posizione sull’esistenza di tali certezze scientifiche o dati di esperienza.
Ma stupisce ancora di più che,  nel richiamare tale pronuncia come calata perfettamente al caso oggetto di esame della Corte di Appello, si tralascia di ricordare, il che avrebbe fortemente ridimensionato il valore del richiamo stesso, che la Corte di Cassazione si occupava di affido del figlio alla madre biologica e non di adozione all’”ex coniuge” omosessuale.
 
Che cosa resta alla Corte d’Appello? L’ultimo aggancio normativo è il cosiddetto ordine pubblico internazionale. E’ un principio giuridico che se violato impedirebbe al provvedimento dell’autorità giudiziaria spagnola che ha decretato l’adozione di avere efficacia in Italia. Ma la Corte si limita a ripetere, anche qui decontestualizzando, pronunce della Corte di Cassazione, secondo le quali tale ordine pubblico, che è costituito dai principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento giuridico italiano, non viene contrariato dal riconoscimento dell’adozione a favore della compagna all’interno della coppia omosessuale.
Nonostante l’atteggiamento rassicurante della Corte d’Appello, non si riesce a capire quale è il profilo di diritto internazionale coinvolto. Entrambe le donne sono italiane e la bambina è anch’essa cittadina italiana, nata da madre italiana. Probabilmente la Corte d’Appello ci farebbe notare che stiamo discutendo del provvedimento dell’autorita giudiziaria spagnola e questo è il profilo internazionale della vicenda. E allora, in questo dialogo immaginario, dovremmo replicare che la fattispecie concreta, oramai sappiamo di cosa si tratta, rappresenta un caso di frode alla legge: quello che non era possibile fare in Italia è stato possibile farlo in Spagna e vederselo poi riconosciuto in Italia. E saremmo solo curiosi di ascoltare la replica a tale considerazione.
 
Dunque, quale è il vero nucleo della motivazione?
Non è giuridico, ma consiste in una radicale ridefinizione del concetto di genitorialità e, dopo avere vagato nelle varie pagine del provvedimento, lo troviamo e lo leggiamo chiaramente: “la giovane X è stata concepita e partorita dalla madre SS nell’ambito di un progetto di vita e di genitorialità condivisa instaurato con la CC già a partire dal 1999, ben tre anni prima della nascita della minore”. Tre anni, opportuna sottolineatura da parte dell’estensore che svela il vero percorso motivazionale del provvedimento, esattamente il limite posto dalla leggete 183/1984: “L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da oltre anni”. Al matrimonio si equipara “il progetto di vita e di genitorialità” e costituisce, ecco il vero senso del richiamo della sentenza della Corte di Cassazione, un pregiudizio ritenere che l’ambiente omosessuale non sia idoneo per la crescita del minore.
Si è genitori quando si vuole un figlio, “progetto di genitorialità condivisa”, non dono ed espressione di un atto procreativo ed unitivo e lo si vuole a prescindere dalle modalità con le quali un qualunque ordinamento giuridico straniero, spagnolo, ucraino, indiano, ha riconosciuto il legame genitoriale. Tutto qui. 
 
Eppure la realtà è più amara di quello che sembra. Le due donne hanno divorziato e i rapporti non sembrano dei migliori se è vero, come riporta il provvedimento, che la madre biologica si è lamentata delle difficoltà di collaborazione con l’adottante, ormai ex compagna, con riguardo alle scelte in ordine alla futura residenza prevalente della bambina, alla scuola ed alla cura delle allergie di cui X soffre (in sostanza si litiga su casa, scuola e salute, praticamente tutto),  riportando un “conflitto” (questa è la parola usata senza perifrasi dall’estensore) che spesso, sottolinea  il provvedimento per tranquillarci sull’assoluta normalità della situazione, contraddistingue i genitori che si separano o divorziano. Con una leggera differenza, che un conto è avere una coppia di coniugi che si separano e dei quali il Tribunale deve regolamentare il distacco; ben diverso è creare un legame giuridico in una situazione, già di per sé conflittuale, che non ne trarrà per niente giovamento. Al che qualche dubbio su questa adozione potrebbe anche nascere, ma il dubbio è prontamente scartato in modo “tranchant” laddove il provvedimento dichiara “che non pare in nessun modo recare serio pregiudizio al benessere psico-fisico della minore”. Ed il quadro “pare” ricomporsi in armonia.
 
E siamo giunti alle considerazioni finali. La sentenza viene a legittimare la prassi di recarsi all’estero per fare ciò che nel nostro paese non è consentito (sposarsi, adottare, affittare l’utero e domani essere assolti dall’accusa di aiuto od istigazione al suicidio realizzato all’estero, forse nella non lontana Svizzera). Il richiamo alle convenzioni internazionali, con la vaghezza che spesso le contraddistingue, nascendo da differenti culture e tradizioni giuridiche ed essendo spesso il risultato di articolate relazioni internazionali, consente di defraudare (“rob”?) il nostro ordinamento di ogni autonomia, in nome di una importazione di principi di altri ordinamenti in ambiti dove la sovranità dello Stato non solo assicura il rispetto  della cultura e dei valori valori portanti di una comunità come rappresentati dalle norme giuridiche, ma anche il corretto e pieno dispiegarsi dei meccanismi democratici che sovrintendono alla modifica delle leggi vigenti.
Non ci si muove in un ambito interpretativo ma con una “sentenza creativa” si ridisegnano principi e definizioni dell’ordinamento giuridico. Il carattere di intervento “a gamba tesa” è ancora più evidente di fronte ad un dibattito che sta coinvolgendo la società italiana nelle sue varie articolazioni.
Il dibattito è in corso non solo nella società e nell’opinione pubblica ma anche nelle aule parlamentari, frequentate da giudici, professori universitari ed avvocati, esperti giuristi, fino alle più alte cariche dello Stato. Orbene, la domanda è semplice: come è possibile che costoro non si siano accorti che stavano discutendo di introdurre qualcosa già presente nel nostro sistema e che aspettava solo il provvedimento della Corte d’Appello di Milano, per essere, torniamo ancora al termine usato dal senatore Lo Giudice “svelato”?
 
A questo punto iniziamo a cogliere il punto di contatto con la “dissenting opinion” del giudice Scalia:
– tre giudici non rappresentativi a fronte di 315 senatori, 630 deputati e 6 senatori a vita;
– un intervento giurisprudenziale che intende interrompere un dibattito legislativo sul presupposto che ciò di cui sta discutendo il Parlamento è già presente nel sistema giuridico;
– motivazione, nonostante le tante pagine, apparente; in realtà ridefinizione di principi portanti dell’ordinamento giuridico con ricadute sulla vita delle persone e sulle relazioni personali dei membri della collettività;
– affermazione di un vuoto legislativo, mentre, al contrario, la legge è chiara e precisa e l’asserito vuoto non è altro che la chiara volontà dell’ordinamento giuridico di escludere quanto il provvedimento vuole, al contrario, veder previsto dall’ordinamento: l’adozione da parte di coppie omosessuali.
 
Perché a noi interessa tale sentenza? Perché la fecondazione eterologa non è, come ben sappiamo, l’ultima frontiera della mercificazione del corpo della donna e del frutto della gravidanza e se passa la linea interpretativa della Corte d’Appello di Milano o del disegno di legge Cirinnà il nostro ordinamento si troverà alla mercé di pratiche che, diffuse in altri Paesi, chiederanno di essere riconosciute nel Nostro. E lo saranno.
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